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Perché Trump ha un futuro

«Tentato golpe». Senza mezzi termini, il presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta sull’insurrezione del 6 gennaio 2021, Bennie Thompson, accusa i manifestanti che diedero l’assalto a Capitol Hill di avere agito su mandato del presidente sconfitto alle elezioni, Donald Trump. E così, mentre questi continua a parlare di elezioni “rubate”, viene pubblicamente smentito dal suo ex ministro della Giustizia, William Barr, che testimonia di avergli ripetutamente detto che non vi erano elementi per respingere il responso delle urne.

Impietosa anche la testimonianza di Ivanka Trump, figlia del magnate salito alla Casa Bianca nel 2016, anche lei allineata sulle stesse posizioni: piaccia o no il risultato, le elezioni del 2020 sono state regolari. I brogli e quindi il “furto” sono il prodotto dalla fantasia del presidente sconfitto, un’invenzione che ha messo in moto una gigantesca macchina della manipolazione che ha spinto qualche centinaio di estremisti a tentare l’assalto al luogo simbolo della democrazia americana.

Ancora più esplicita Liz Cheney, repubblicana di lungo corso, secondo cui Trump aveva elaborato un piano in sette punti per rovesciare l’esito elettorale, contando sulla complicità del vicepresidente Mike Pence che avrebbe potuto invalidare il voto. Come noto, l’ex-vicepresidente non assecondò mai quel progetto, finendo per abbandonare Trump al suo delirio post- elettorale. Le audizioni della Commissione parlamentare sono appena iniziate ma, se il buongiorno si vede dal mattino, il giudizio della Commissione potrebbe aggravare le già pesanti responsabilità dell’ex-presidente. 

Eppure, questa vicenda politica e giudiziaria potrebbe non concludersi con lo happy end della verità che trionfa sulle menzogne e della giustizia che vince sulle macchinazioni della peggiore politica. Comunque vada a finire, infatti, vi è un’America irriducibilmente trumpiana che, a dispetto di ogni sentenza, nutre la ferma convinzione che le elezioni presidenziali del 2020 si siano risolte con il più clamoroso broglio della storia delle democrazie. Un’America che spera che il suo eroe torni alla Casa Bianca nel 2024 e che sta lavorando per questo obiettivo. 

A novembre si vota e, da sempre, le elezioni di “metà mandato” nelle quali si rinnova una quota consistente del Congresso, sono lo spauracchio del partito del presidente in carica: troppo lontane dalla honeymoon, il consenso benevolo che ogni americano concede al presidente eletto anche quando appartiene a un partito diverso da quello che ha votato, le elezioni di midterm spingono alle urne soprattutto gli scontenti e i delusi. Chi ha fiducia nel presidente in carica, sia repubblicano o democratico, tende a restare a casa. Le elezioni di novembre daranno così un’occasione di rivincita non solo agli estremisti trumpiani ma anche ai delusi da Joe Biden. E, a guardare i sondaggi, non sono pochi. Inoltre, il Grand Old Party repubblicano non si è ancora affrancato dal peso di un ex-presidente dotato di una poderosa macchina mediatica, che ancora oggi riesce a condizionare la selezione di vari candidati locali e, ovviamente, accredita la sua immagine di vittima dei poteri forti di Washington, dell’odiata stampa liberal, delle lobby LGBT.

È un’America di provincia, paurosa di ogni cambiamento sociale e culturale, rassicurata dalle armi bene in vista sul camino di casa, polarizzata dalle battaglie pro-life ed elettrizzata dalla recente sentenza della Corte suprema che in alcuni Stati ha drasticamente limitato la possibilità di abortire. Sondaggi come quelli condotti dal Pew Forum e da altri istituti specializzati confermano unanimi che l’ex-presidente continua a intercettare il “voto di Dio”, quello di chi frequenta con regolarità una chiesa. Ma che cosa spinge pii e ferventi evangelical a votare per un presidente la cui condotta morale e i cui orientamenti ideali sembrano avere assai poco a che fare con il modello puritano del cristiano rigoroso e impegnato? Prova a rispondere Sarah Posner, in un libro, Unholy, sottotitolato, “Perché gli evangelical bianchi adorano all’altare di Donald Trump”. La risposta è complessa. Da una parte, the Donald ha fatto propria l’intera agenda della destra religiosa: no all’aborto, nessuna concessione al movimento LGBT, sì alla preghiera nelle scuole, più incentivi alle famiglie “tradizionali”, meno political correctness del pluralismo religioso e più enfasi sui valori dell’America cristiana; nel nome della libertà religiosa ha anche strizzato l’occhio ai no vax.

Al tempo stesso, si è circondato di predicatori della Destra religiosa: dall’inossidabile Ralph Reed, già direttore della Christian Coalition e poi consulente di George W. Bush, all’eccentrica Paula White, icona e apostola di una teologia della prosperità del tutto coerente con l’etica trumpiana; ai telepredicatori delle megachurches come il texano Robert Jeffres, a capo di una comunità di 14.000 membri. Nessuno di loro affermerebbe che Trump è un santo e un’icona della pietà cristiana, eppure sono fermamente convinti che Dio si stia servendo di lui. Come il re persiano Ciro che aiutò gli ebrei esiliati a tornare a Gerusalemme e a ricostruire il tempio, Trump sarà quello che sarà ma – affermano con genuina convinzione gli evangelical che lo sostengono – è l’uomo che Dio ha chiamato per restaurare l’America cristiana.

 

Foto da Trump White House Archived