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L’onestà d’intenti nella comunicazione

I “suoi” giornalisti voleva conoscerli uno a uno, appena assunti. E a ciascuno diceva una frase che era insieme un benvenuto e una lezione di giornalismo, almeno di quello che lui intendeva e che quel tempo intendeva per giornalismo: «Lei avrà sicuramente le sue idee politiche. Ma io da quello che scrive non le dovrò capire». Sergio Lepri, direttore dell’Ansa dal 1962 al 1990, con quelle poche parole lapidarie non intendeva invitare all’auto-censura o a una sorta di equidistanza asettica, ma a tenere a mente sempre la distinzione tra fatti e opinioni, cronaca e commento.

Lui, d’altra parte, nella sua vita ha sempre saputo schierarsi. Lo fece durante la Seconda Guerra mondiale, sposando la causa della Resistenza nel cui ambito approdò al mestiere della vita scrivendo per il giornale clandestino dei liberali toscani e dopo come portavoce di Amintore Fanfani. Ma il giornalismo non era propaganda. Tantomeno pubblicità. Secondo il maestro Lepri, il giornalismo è serietà, attendibilità, precisione, rigore e ancora rigore. Capacità d’investigare, di andare a fondo, senza mai essere guidati da preconcetti e da pregiudizi. La sua era l’Ansa dove gli articoli erano letti uno a uno, da qualsiasi sede provenissero, in Italia e all’estero; era l’Ansa che non aveva fretta, dove la verifica delle fonti era più importante del record di chi “arriva prima”. Non è un caso che con lui l’agenzia fosse diventata la quarta nel mondo.

Era il tempo in cui era soppesata ogni parola, ogni virgola. Il cronista che sbagliava riceveva la sua telefonata, o quella dei suoi vice, che garbatamente, ma con decisione, sottolineavano la sbavatura. I toni erano pacati, sempre rispettosi, ma fermi. Nella sua lunga carriera e nei libri che ha consegnato a futura memoria, Lepri ha testimoniato un giornalismo che si distingue dalla chiacchiera, dalla babele da talk show, dalle letture ovvie e superficiali degli eventi, siano essi di cronaca nera o di politica. Cura dei particolari, a partire dal linguaggio; Lepri indicava tra i difetti maggiori del giornalismo italiano, l’essere incline a subire il condizionamento dei “palazzi” del potere; ricordava costantemente, a voce e nei suoi manuali ancora adesso in uso nelle scuole nei corsi di formazione professionale, che il giornalismo è a servizio dei lettori, degli spettatori, della gente comune che, innanzitutto, deve capire.

Giornalismo è comunicazione e comunicazione è onestà d’intenti, chiarezza, completezza nel fornire quelle informazioni utili alla comprensione dei fatti. E a questo scopo indicava tra le altre pecche del giornalismo, l’uso frequente e improprio dei forestierismi e, al contempo, la ricerca del “bello scrivere”. Avvertiva i colleghi e le colleghe di non indulgere nello sfoggio delle proprie abilità narrative: un conto è lo scrittore, un altro il giornalista; un conto il romanzo, un altro un servizio di cronaca. D’altra parte – osservava – in Italia il giornalismo è nato colto, intellettuale e un po’ tale radice se la porta dietro. Una chiosa quest’ultima che forse non s’addice più nel XXI secolo che allo scrivere aulico e a volte letterato ha sostituito le sgrammaticature, gli azzardi sintattici, la sciatteria narrativa.

Detto ciò Lepri non era un conservatore. Non in senso politico, ma in senso culturale, umano. Due aspetti lo confermano: l’attenzione, fondamentale nel giornalista, ai cambiamenti che non vanno subiti, ma compresi e la fiducia nei giovani. Non era un nostalgico del passato. Era un osservatore critico del presente. Come è, come deve essere, un buon giornalista. Grazie maestro.

 
Foto Ansa di Riccardo Antimiani