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Suicidio medicalmente assistito, ora una legge

Nel settembre 2019 la Corte Costituzionale ha emesso una sentenza secondo cui, in determinate condizioni, prestare assistenza a una persona che intenda metter fine alla propria vita non sarebbe un reato equiparabile all’istigazione al suicidio. Nei giorni scorsi, il Comitato etico dell’Azienda sanitaria della Regione Marche ha ravvisato che nel caso di “Mario” – un nome di fantasia – esistano appunto le condizioni per le quali l’assistenza al suicidio non è perseguibile. A Luca Savarino, docente di Bioetica all’Università del Piemonte orientale, membro della Commissione di studio battista, metodista e valdese sui problemi etici posti dalla scienza e del Comitato nazionale per la bioetica, chiediamo: in che misura il caso attuale si differenzia da quello che portò al pronunciamento della Corte Costituzionale?

«La sentenza della Corte Costituzionale ha segnato una svolta storica nella disciplina del fine vita in Italia, ma ha lasciato alcuni problemi aperti. Tali problemi riguardano le modalità pratiche di attuazione delle procedure, ma soprattutto i criteri che rendono lecito l’accesso al suicidio medicalmente assistito. Qualora infatti si stabilisca – come ha fatto la Corte – che la distinzione tra uccidere e lasciar morire sia generalmente valida ma non assolutamente valida, sorge il problema di quali siano le condizioni che rendono lecito ottemperare alla richiesta di essere aiutati a uccidersi. Come noto, tali condizioni per la Corte erano quattro: che il paziente fosse in grado di prendere decisioni libere e consapevoli; che la patologia fosse irreversibile; che essa sottoponesse il paziente a sofferenze fisiche o psicologiche intollerabili; che il paziente dipendesse, per la propria sopravvivenza, da un sistema di sostegno vitale. Da questo punto di vista la sentenza, che è esplicitamente modellata su un caso particolare, richiede necessariamente un’integrazione legislativa, perché, riguardo ai criteri, giunge a un esito paradossale e pone una discriminazione inaccettabile tra coloro che sono dipendenti da un sistema di sostegno vitale e coloro che non lo sono. Che l’essere “attaccati a una macchina” non possa diventare un criterio discriminante per l’accesso alle procedure è dimostrato dal fatto che tale criterio non sia presente in nessuna legge tra quelle che, nel mondo, legalizzano il suicidio medicalmente assistito».

– Il signor “Mario” di cui si è parlato in questi giorni non è tenuto in vita da un sistema di sostegno vitale: come si spiega allora il parere del Comitato etico?

«Il parere dal Comitato etico marchigiano ricalca una recente sentenza del Tribunale di Massa (nr. del 27 luglio 2020), che ha stabilito che il concetto di “dipendenza da trattamenti di sostegno vitale” debba essere intesa in senso ampio, fino a includere al proprio interno qualsiasi trattamento, anche farmacologico, la cui cessazione provocherebbe la morte del malato: nel caso specifico, avere un pacemaker o un catetere vescicale permanente. Questa interpretazione così “estensiva” e contraria al senso comune del concetto può lasciare perplessi, ma mi sembra evidente che è dettata dall’intento di evitare discriminazioni. Per risolvere questo tipo di problemi è necessario che il Parlamento metta mano al problema e approvi una legge che fissi in modo chiaro le condizioni e le modalità di attuazione di una disciplina della morte volontaria».

– Emerge qui una carenza cronica: la sentenza del 2019, che si inseriva in un vuoto legislativo, sollecitava la politica a prendere una decisione e a dotare la Repubblica di una legge in materia. Mancava allora, manca oggi: quali sono le difficoltà interne alla politica, che bloccano la formulazione di un testo legislativo?

«Sul piano legislativo, è necessario prendere decisioni il più possibile condivise, che stabiliscano criteri e norme d’azione certe e comprensibili. Purtroppo, si tratta di temi su cui l’opinione pubblica è divisa, e questa divisione si riflette anche sul piano politico e parlamentare. Ricordo, a questo proposito, che il documento su questi temi approvato nel 2017 dalla “Commissione bioetica delle Chiese battiste metodiste e valdesi in Italia” è stato approvato a maggioranza, e non all’unanimità. E che il parere del Comitato nazionale per la Bioetica del 2019 sugli stessi temi ha visto i componenti equamente divisi tra favorevoli e contrari alla legittimità del suicidio medicalmente assistito. Ciò premesso, a me pare che indietro non si possa più tornare e che sia necessaria una legge che regolamenti i criteri d’accesso e le modalità di attuazione del suicidio medicalmente assistito in Italia. In caso contrario, a farne le spese saranno coloro che continuano a vedersi negato nella pratica il diritto di morire nel modo più conforme alla loro concezione della dignità umana».