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Non chiamatelo mestiere

Adelina Sejdini si è uccisa il 6 novembre. Di origine albanese, sopravvissuta alla prostituzione, aveva portato all’arresto di più di quaranta dei suoi sfruttatori. «Se torno in Albania mi ammazzano», diceva, e da anni viveva con lo status di apolide, nella speranza di ottenere la cittadinanza italiana. Pochi giorni fa, all’ennesimo rinnovo del permesso di soggiorno, non risulta più apolide ma cittadina albanese; non più invalida al 100% (era gravemente malata) ma lavoratrice.

Un caso estremo, che dice più di mille statistiche e dati, ma anche quelle ci vogliono, per superare l’idea, viziata da stereotipi e pregiudizi, spesso molto edulcorata, che molti hanno.

Ne è convinta Gigliola Belforte, presidente dell’Ywca-Ucdg (Unione cristiana delle giovani), che da qualche anno collabora con la onlus torinese Iroko e altre associazioni che lavorano contro la tratta e la prostituzione. Gigliola aveva incontrato Adelina, mi racconta all’inizio del nostro colloquio; il bel volto deformato dalle botte, la sua forza «ma allo stesso tempo il riemergere di ferite tali per cui ritrovare una stabilità “normale” è difficilissimo. Ti rubano la vita non solo durante, ma indefinitamente».

In una società che considera la prostituzione un mestiere, secondo l’ambigua definizione di “sex work”, e in cui attività come la “escort” sono diventate appetibili, le responsabilità sono tante: dai mezzi di informazione, ai social, alla politica, alle famiglie… Non ci rendiamo nemmeno conto di muoverci in un immaginario che ha reso normale qualcosa che normale non è. In un’interessante conferenza promossa da Iroko (Smontare il sex work, sul sito www.associazioneiroko.org), la sociologa Gail Dines, tra le maggiori attiviste contro la pornografia, notava che 15 attrici hanno vinto un Oscar nel ruolo di prostituta (26 le nomination), fin dalla prima edizione nel 1929. Senza dimenticare Julia Roberts che, con Pretty Woman nel 1991, pur non vincendo consacrò un vero e proprio mito.

Ma anche le chiese non possono chiamarsi fuori: anzi è importante che insieme ad associazioni come l’Ywca contribuiscano attivamente a combattere questo fenomeno, asserisce Belforte: «Qualcuno fa l’ingenuo, dice che sono d’accordo, che fa parte della loro cultura (parlando per esempio di Cuba). Sono convinta che anche nelle nostre chiese ci siano diversi “clienti”, che molti siano convinti che si tratti di un “peccato veniale”. Purtroppo finora non è lavorato molto su questo».

Eppure l’interesse e il bisogno di sapere sono molto forti, lo ha dimostrato il seguitissimo ciclo di incontri promosso dall’Osservatorio interreligioso sulle violenze contro le donne (Oivd) e dalla Federazione donne evangeliche in Italia (Fdei) dallo scorso marzo, che sta proseguendo (prossimo incontro giovedì 18 novembre; i video si possono rivedere sulla pagina Facebook dell’Oivd) con un focus sulle varie religioni. 

E sulla stessa scia si colloca il Quaderno per i 16 giorni contro la violenza pubblicato dalla Fdei, che approfondisce molti aspetti. Il dossier è ricco di dati e spunti per avviare un dibattito urgente e creare maggiore consapevolezza, per esempio sull’idea che si tratta, dice Belforte, «non di offesa alla “morale pubblica”, ma di lesione dei diritti umani, di delitti contro la persona».

Le diverse esperienze europee, alcune rivelatesi drammaticamente fallimentari come quella della Germania, dovrebbero farci capire che la prostituzione non è un problema da normare ma in definitiva impossibile da sradicare, bensì di una pratica “culturale”, che in quanto tale si può modificare. Il cosiddetto “modello nordico” neoabolizionista, in vigore nei paesi scandinavi e in Francia, promosso in Italia anche da associazioni come Ywca e Iroko, sottende un’ottica diversa: «Riteniamo che non si debba normare la prostituzione ma lottare in vista di ridurla drasticamente e abolirla colpendo la domanda e facendo programmi seri per sostenere le donne nell’uscita da uno stato di schiavitù disumanizzante» spiega Gigliola Belforte.

Ma dove sta andando l’Italia? Contrariamente al pensare comune, con la legge Merlin del 1958 si era data una normativa avanzata, purtroppo spesso deformata da un’interpretazione “moralista”.

All’inizio di luglio, la commissione Affari Costituzionali al Senato ha presentato un’indagine conoscitiva su tratta e prostituzione, promossa dalla senatrice Alessandra Maiorino, che potrebbe fare evolvere il nostro Paese verso il “modello nordico”. Di fronte alla realtà mostrata dall’indagine, molti hanno dovuto ricredersi.

Il processo di “rieducazione” di una società non può che essere lungo e difficile, e secondo Belforte bisogna cominciare presto, perché la situazione è preoccupante, anche fra i più giovani: «Chi fa questo lavoro di sensibilizzazione nelle scuole dice che andrebbe fatto fin dall’asilo, dalle elementari, perché oggi la pornografia è un problema enorme, che coinvolge bambini molto piccoli, veicolando un immaginario estremamente violento». Le (poche) ore di educazione civica recentemente introdotte, conclude, possono essere fondamentali, e ricorda il caso di un istituto tecnico della periferia di Roma. All’inizio della lezione i ragazzi “adulavano” Rocco Siffredi, alla fine, dopo quello che avevano imparato, l’attore porno non era più il loro mito…