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Offesa e dolore sono dimostrazioni della nostra vulnerabilità

Il titolo dell’ultimo libro di Marco Bouchard*, magistrato per molti anni, fa riferimento al “bivio” di fronte al quale si trovano le vittime di reati: parlandone con lui, gli chiedoamo innanzitutto in che modo sia cambiato, negli ultimi decenni, il modo di intendere le vittime. E perché l’Italia è così in ritardo nell’occuparsi di vittime di reati?

«La sensibilità e l’attenzione verso le vittime dei reati è un’acquisizione recente. Certo: nell’antichità aveva un ruolo maggiore, ma parliamo di un tempo in cui la maggior parte di quelli che oggi noi definiamo delitti erano considerati faccende private. Ma, negli ultimi secoli, gli Stati si sono preoccupati di governare il più possibile la conflittualità e le offese più gravi attraverso la polizia, i giudici, i processi e il carcere. La vittima è rimasta in disparte proprio per l’interesse degli Stati ad affermare il potere dell’autorità pubblica.

Ora la vittima riemerge e i “vittimologi” – anche la vittimologia è scienza recentissima che compare nel secondo dopoguerra – parlano proprio di un’era della riemersione (reemergence age). Perché? La risposta è molto complessa. In sintesi: perché la nostra vita sociale è sempre più individualistica e quelle che un tempo venivano vissute come “disgrazie” oggi ci inducono a pretendere l’accertamento di una qualche responsabilità umana; perché oggi siamo più consapevoli dei nostri diritti e chiediamo all’autorità che ci protegga. L’Italia, rispetto ad altri paesi europei, accusa un ritardo nella tutela della vittima. Probabilmente perché ha una struttura famigliare e delle reti solidaristiche più resistenti. Anche la conflittualità sociale fino a poco tempo fa era governata dalle attività di partiti e sindacati e l’individualismo aveva meno spazio».

– Di fronte a molti fatti di cronaca, ma anche nella vita quotidiana, dice nel libro, il diritto penale sta invadendo le nostre vite, a livello individuale e sociale: che cosa sta accadendo?

«Ci sono due fenomeni che procedono parallelamente. Uno lo conosciamo ormai molto bene. L’Italia negli ultimi 50 anni ha vissuto un’emergenza dopo l’altra: i servizi “deviati”, il terrorismo, la criminalità organizzata, la corruzione. Il diritto penale – che dovrebbe essere l’ultima risorsa – è diventata la risposta ordinaria e necessaria. L’altro lo conosciamo meno. L’individualismo genera vittimismo e quest’ultimo induce alla facile denuncia tutte le volte che qualcosa va storto anziché trovare soluzioni fondate sulla ricerca collettiva di una migliore qualità della vita. Credo che questi due fenomeni hanno ampiamente contribuito anche ad alcuni guasti del nostro sistema penale che è stato sollecitato oltre misura».

– Nel libro si dice che la condizione della vittima è una manifestazione della nostra vulnerabilità, la vulnerabilità di tutti: in che senso?

«Noi tendiamo a considerare la vulnerabilità e la dipendenza dagli altri come un aspetto negativo e problematico dell’esistenza. Una specie di difetto rispetto al modello dell’essere umano autonomo, indipendente, capace di scelte razionali e utili. La continua ricerca di una maggiore sicurezza è segnata da una sorta di ingenua fiducia verso un’impossibile invulnerabilità. Negli ultimi anni filosofi come Paul Ricoeur e Emmanuel Lévinas, nonché un interessante orientamento femminista, ci stanno aiutando a capire il valore della nostra intrinseca vulnerabilità e dipendenza e persino della vulnerabilità delle Istituzioni, che devono essere costantemente curate e riformate. Io penso che la “riemersione” della vittima ci permetta di cogliere l’importanza dell’attenzione che dobbiamo riservare all’offesa e al dolore che ne consegue in quanto dimostrativo della nostra universale vulnerabilità. Tutti siamo esposti all’offesa».

– Il suo lavoro nell’ambito della giustizia riparativa procede ormai da molti anni: come si colloca in questo percorso il suo libro?

«La mia storia professionale di magistrato coincide in pratica con un percorso di studio e di lavoro nella prospettiva di una giustizia riparativa: come giudice minorile prima, come pubblico ministero poi e, infine, come presidente di un Collegio penale. Ho profondamente creduto nella possibilità che l’offesa possa trovare, innanzitutto, una forma di riparazione attraverso il dire, il dare, il fare più che attraverso il subire. Sono verbi transitivi che valorizzano l’azione positiva del responsabile dell’offesa. Il libro illustra un’evoluzione del significato e del valore della riparazione senza contraddire il pensiero precedente. Dal punto di vista della vittima la riparazione è innanzitutto un “mettere al riparo”: questo significa valorizzare il lavoro di cura. Cura e giustizia devono trovare un’alleanza».

– La conclusione di questo libro ha un’impronta molto personale: in che modo la sua formazione e la sua identità hanno influenzato il suo lavoro?

«La giustizia riparativa moderna ha una indiscutibile radice protestante: le prime esperienze si sono consumate nella comunità mennonita di Kitchener nell’Ontario; mennonita è il padre della giustizia riparativa moderna, Howard Zehr; la più alta espressione della giustizia riparativa è stata la “Commissione per la verità e la riconciliazione” in Sudafrica, presieduta da un vescovo anglicano, Desmond Tutu. Quanto al mio crescente interesse verso le vittime riconosco le tracce delle antiche persecuzioni verso una minoranza religiosa cui appartengo. Non mi sento per nulla vittima, ma credo nella trasmissione intergenerazionale delle esperienze traumatiche.

 

M. Bouchard, Vittime al bivio. Tra risentimenti e bisogno di riparazione. Genova, Il Melangolo, 2021, pp. 129, euro 16,00.