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Le neuroscienze e il libero arbitrio

L’attacco al cosiddetto «libero arbitrio», qualunque cosa con ciò si intenda, non è nuovo. L’idea dell’«essere umano – macchina» è stata formulata esplicitamente nel XVIII secolo, ma non è difficile individuarne le radici nelle molteplici tendenze “naturaliste” (un tempo si diceva: “materialiste”) della filosofia greca antica. È un fatto, tuttavia, che l’approccio neuroscientifico costituisce un salto qualitativo: abbandonando definitivamente modelli un poco semplicistici di tipo meccanico, si cerca oggi di descrivere l’attività cerebrale e i processi decisionali mediante strumenti teorici che integrano nuove conoscenze di carattere fisiologico e biochimico a chiavi di lettura derivate dalla computer-science. La ricerca teorica di base, poi, è in dialogo serrato con quella tecnologica, impegnata (con notevole successo, sembrerebbe) a sospingere in avanti i confini dell’intelligenza artificiale.

La domanda sul «libero arbitrio» è spesso posta in questi termini: che senso può avere una simile categoria, quando i processi decisionali appaiono determinati da dinamiche neurofisiologiche e, secondo esperimenti famosi, risultano sostanzialmente compiuti prima che il cervello li registri sul piano della coscienza? La questione, evidentemente, è di ampia portata, per quanto riguarda la comprensione dell’essere umano, l’etica e anche il diritto: investe, infatti, la nozione stessa di responsabilità.

Siamo di fronte alla riprova del fatto che la nozione di libertà è tra le più difficili da trattare: essa coinvolge, infatti, i piani logici, cognitivi, emotivi, linguistici più diversi, generando il rischio di confusioni paralizzanti. Già il dibattito cattolico-protestante (ma in definitiva tutto interno al pensiero di Agostino) su grazia e libero (o servo) arbitrio è un esempio di questo rischio. Lutero poteva parlare al tempo stesso di libertà del cristiano e di servo arbitrio: ovviamente, si tratta di usi diversi dello stesso termine; e qualcosa del genere è anche accaduto nello scontro tra il Riformatore ed Erasmo da Rotterdam. Evidentemente, i termini della discussione attuale sono molto diversi. Può essere utile osservare alcune precauzioni, le quali, se non agevolano risposte semplici e chiare, almeno allontanano un poco la possibilità di dire sciocchezze.

In primo luogo, mi appare necessaria una certa sobrietà nel trarre conclusioni più o meno filosofiche da singole ipotesi di ricerca, che al momento appaiono suggestive. Attenzione: non sto dicendo che le teorie scientifiche non abbiano profonde implicazioni sulla comprensione dell’essere umano; e nemmeno che, siccome esse sono per definizione provvisorie, si possono tranquillamente ignorare perché tanto cambieranno. Questi sono frusti argomenti antiscientifici e irrazionalisti (non raramente presenti anche nelle chiese) che vanno semplicemente respinti. Affermo invece che le conseguenze di una ipotesi scientifica sulla comprensione filosofica e religiosa dell’essere umano non sono quasi mai evidenti, né dirette. E questo va detto con chiarezza anche ai “naturalisti” che popolano le pagine di divulgazione scientifica dei supplementi letterari dei grandi giornali.

In secondo luogo, credo che il pensiero cristiano debba abbandonare una volta per tutte l’idea che la fede sia una sorta di “megateoria” su Dio e sul mondo, che avrebbe il compito di completare il quadro offerto dalle scienze. Anche quando è formulata nel modo più prudente, questa visione costituisce una variante della tesi del “Dio tappabuchi”, che la teologia del Novecento sperava di aver liquidato. Essa è condivisa, ovviamente in prospettiva opposta, dai profeti dell’ateismo “scientifico”: siccome il mondo si spiega benissimo anche senza l’ipotesi Dio, quest’ultima può tranquillamente essere eliminata o considerata intellettualmente residuale. È vero che la fede, quando parla del mondo, intende la stessa realtà alla quale si riferiscono le scienze: la contempla, però, da un punto di vista diverso.

È un fatto che molte donne e molti uomini ritengono superfluo, forse nocivo, accostare a quello delle scienze un punto di vista diverso sulla realtà, che la legga a partire da ciò che la fede chiama «parola di Dio». Altre persone, dette convenzionalmente “credenti”, non considerano una tale prospettiva obbligatoria, ma nemmeno superflua, bensì gratuita: una possibilità che non si può dedurre, ma che ci è offerta e che, se accolta, cambia il modo di guardare alla vita e anche alla morte.

Tutto questo non chiude il dibattito sul “libero arbitrio”: semplicemente, cerca di indicare lo spazio entro il quale (anch’) esso si colloca.

 

Foto da Consolata.org