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Delitti e pene: privilegiare uno sguardo che sia rivolto al futuro

Ogni epoca e ogni cultura hanno avuto i loro crimini e le loro pene. Un tempo si poteva finire sul rogo per opinioni religiose eretiche mentre oggi quasi tutti gli Stati riconoscono il principio della libera espressione del proprio credo. Al contrario, molti delitti che oggi consideriamo gravi come le violenze sessuali o le rapine un tempo venivano trattati come questioni private.

Oggi noi diamo un po’ per scontato che la punizione prevista per un reato sia il carcere, cioè la privazione della libertà, calcolata in giorni, mesi, anni. Ma questa pena è un tipo di punizione molto recente nella storia dell’umanità. È solo nel 1800 che abbiamo iniziato a concepire l’incarcerazione come punizione.

Prima, il carcere era solo un passaggio in attesa di supplizi, pene corporali, lavori forzati, esilio. Il carcere – questa era la novità – non doveva solo difendere la società dalla libera circolazione dei trasgressori ma costituire un’occasione di cambiamento per il condannato. Ora, la pena detentiva continua a funzionare come strumento di esclusione della libertà di movimento ma ha fallito l’obiettivo di promuovere il positivo reinserimento in società del detenuto, se è vero che il tasso di recidiva di chi ha fatto esperienza carceraria continua a essere molto alto: negli ultimi anni in Italia si aggira intorno al 70%.

Il carcere crea criminalità anziché ridurla. È stata dunque inevitabile la ricerca di nuove strade perché il fallimento delle misure penali nuoce innanzitutto al consorzio umano e, in particolare, alle nuove vittime. Qual è stata, allora, l’alternativa ricercata? Ci sono state due soluzioni principali. La prima strada è stata quella della sospensione del processo o della condanna a certe condizioni: assenza di precedenti, obbligo di attività socialmente utili, divieto di frequentare delinquenti.

L’altra strada è stata quella dell’uso del lavoro come pena o come alternativa alla pena: non più lavori forzati ma servizi di comunità, previsti in Italia da pochi anni ma praticati da decenni soprattutto nei paesi anglosassoni, con alcuni eccessi negli Stati Uniti, dove il sistema delle carceri private permette alle multinazionali di sfruttare il lavoro dei detenuti a prezzi di manodopera stracciati.

L’esercito dei condannati a queste misure alternative al carcere in Italia è raddoppiato in poco tempo e nel 2020 ha raggiunto la cifra considerevole di 57.000 persone. Sono misure sicuramente più efficaci perché il rischio di recidiva si riduce intorno al 25%. Certo: va detto che i candidati selezionati per scontare una pena senza mettere piede in galera sono molto meno pericolosi di quelli costretti a rimanere reclusi. Anzi: spesso non sono pericolosi affatto.

Può capitare a chiunque tra i nostri lettori di essere accusato di lesioni stradali per una minima disattenzione a bordo della propria vettura. Per fortuna, a certe condizioni, possiamo “pagare” pene detentive severe con qualche mese o qualche anno di lavoro per la collettività anziché in una cella sovraffollata.

Di recente, però, si è aperta una nuova prospettiva di cui ci ha parlato il pastore Sciotto nella sua intervista (n. 8, p. 1): ci ha introdotto alla giustizia riparativa che si propone, appunto, di riparare l’offesa anziché replicare al male fatto togliendo libertà e infliggendo sofferenza al colpevole. È una giustizia che, ovviamente, non è applicabile a tutti i crimini e a tutti gli autori. È una giustizia di cui noi protestanti dovremmo andare orgogliosi perché il suo seme è stato gettato da una comunità di mennoniti nella provincia dell’Ontario, in Canada, nella metà degli anni ’70 del secolo scorso.

Il concetto di restorative justice ha una stretta derivazione biblica ed è stato utilizzato da uno psicologo americano, Albert Eglash, in base alla lettura di un trattato sulla giustizia nella Bibbia di due autori tedeschi. La pianta della victim offender reconciliation si è diffusa rapidamente in tutto il mondo e comincia ad essere coltivata con profitto anche in Italia. La giustizia riparativa risponde a tre esigenze fondamentali. La prima. Ci sono offese – parole odiose, piccoli furti, infrazioni stradali, violazioni urbani- stiche – che conviene riparare prontamente senza lungaggini processuali che portano a pene detentive destinate a rimanere sulla carta.

La riparazione materiale è interesse del colpevole, della comunità e delle eventuali vittime. Riparare l’offesa significa, innanzitutto, riparare qualcosa con il dire parole giuste, dare l’equivalente di quanto è stato sottratto, fare opera di risanamento dei guasti provocati.

La seconda. Ci sono offese, a volte terribili, commesse da criminali che non si pentiranno mai del male fatto. La giusta punizione, però, non sanerà mai il dolore o la perdita subita dalle vittime. La giustizia riparativa ci invita a occuparci, in primo luogo, delle vittime. La loro sofferenza non può aspettare il passaggio in giudicato delle sentenze di condanna. A volte i colpevoli non vengono neppure trovati. Qui riparare l’offesa significa dare riparo alle vittime, garantire loro servizi di assistenza e protezione, indennizzi da parte dello Stato, quanto meno per i delitti intenzionali violenti. Questo è un tipo di giustizia riparativa che in Italia manca totalmente.

Infine. La filosofia del carcere guarda al passato e invita all’esclusione; quella della rieducazione parla soprattutto al colpevole; la giustizia riparativa guarda al futuro e si rivolge anche alle vittime e, attraverso di esse, coinvolge la comunità. Il significato del riparare supera i confini della giustizia penale e dovrebbe caratterizzare il modo di vivere nelle nostre città. Non a caso, in Gran Bretagna, a Hull e a Leeds, è stata lanciata l’idea della “città riparativa” per coinvolgere, soprattutto, i giovani. Non propone una visione idilliaca. Al contrario: mette al centro le nostre fragilità e la nostra vulnerabilità per cercare soluzioni accettabili al dolore del crimine nella consapevolezza che non verrà mai magicamente cancellato dal dolore della punizione.

Il bisogno di vendicare il male fatto e di ripararlo si alternano nella società e, in fondo, appartengono al nostro Dna. Anzi: lo costituiscono come i suoi due filamenti che sono “antiparalleli”. L’uno, la giustizia retributiva, si preoccupa del passato. L’altro, la giustizia riparativa, lavora per il futuro. La saggezza sta nel trovare il punto di equilibrio.