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Nelson Mandela e quell’11 febbraio del 1990

L’11 febbraio del 1990, dopo ben ventisette anni di detenzione, si aprirono le porte del carcere per Nelson Mandela, leader che guidò la battaglia contro l’apartheid in Sudafrica. 

Mandela grazie alla sua lotta è stato l’attivista per i diritti umani di riferimento per il Sudafrica; la sua lotta contro il razzismo fu fondamentale per l’intera Africa e per il mondo. Per quest’impegno costante, pagato a duro prezzo, tre anni dopo la sua detenzione ricevette il Premio Nobel per la pace, era il 1993. Mandela morì il 5 dicembre del 2013 nella sua terra, il Sudafrica. 

Una curiosità riportata dal web (sarà vera?) afferma che al concerto tenutosi il 18 luglio 2008 per i suoi 90 anni presso l’Hyde Park di Londra assistettero 46.664 spettatori. Un caso? Una decisione? Dunque, lo stesso numero (ricorda Wikipedia, l’enciclopedia online più famosa al mondo) che per 27 anni Mandela portò cucito sulla propria uniforme da carcerato.

«Tra i grandi meriti di Mandela – ricordava nel 2018 il professor Paolo Naso per i cent’anni dalla nascita del leader per i diritti civili  – vi è quello di essersi sottratto a un uso ideologico della sua storia e della causa alla quale ha dedicato la vita. Quando era ancora in carcere – ricordiamo che nel 1962 fu arrestato e poi condannato all’ergastolo per reati di azione armata non connessi a fatti di sangue – immaginò un programma politico che superava i confini dell’ortodossia marxista e faceva propri sia le politiche sia principi liberaldemocratici. Aderì all’African National Congress – la principale forza di opposizione al regime – quando l’organizzazione perseguiva ancora una strategia nonviolenta, e fu solo dopo la strage di 69 attivisti nel 1960 che lui e gli altri leader dell’organizzazione decisero di abbandonare la filosofia e i metodi gandhiani. 

Seguì una stagione terribile, in cui il potere bianco si macchiò di centinaia di attentati contro personalità dell’opposizione e di una delle stragi più gravi compiute contro civili inermi: accadde nella township a Soweto il 16 giugno del 1976, quando le forze militari sudafricane uccisero almeno 200 manifestanti. La foto di una coppia di genitori che reggevano in braccio il cadavere del figlio di pochi anni fece il giro del mondo e suscitò un’eccezionale ondata di mobilitazione contro l’apartheid sudafricano. Ma il regime era ancora forte e rifiutò ogni negoziato». 

Mandela si era “formato” nelle scuole metodiste; nella sua prigionia era stato accompagnato in carcere da un cappellano metodista: «benché incarcerato – ricordava Naso –, era ben consapevole del ruolo del Consiglio ecumenico delle Chiese nelle campagne di boicottaggio contro il razzismo sudafricano e nel sostegno all’opposizione. Insomma, aveva tutti gli elementi per comprendere la potenzialità di quel cambiamento teologico che toglieva ogni legittimità morale a un regime ormai in declino».