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Uganda, il potere non passa di mano

Lo scorso 14 gennaio si è votato in Uganda per le elezioni presidenziali. Al centro dell’attenzione, soprattutto la sfida tra il presidente uscente Yoweri Museveni e il musicista Bobi Wine, una tra le voci più conosciute della musica africana. Secondo la commissione elettorale di Kampala, Museveni ha ottenuto il suo sesto mandato dopo aver sconfitto Bobi Wine con il 59% dei voti e soprattutto ha ribadito la regolarità del processo elettorale, negando che ci siano stati dei brogli. Tuttavia, Wine, accreditato del 35% dei voti, ha definito l’elezione come «la più fraudolenta nella storia dell’Uganda».

Le elezioni presidenziali sono arrivate dopo una campagna molto tesa e violenta, con decine di persone uccise e con numerose aggressioni e arresti nei confronti di Wine, azioni continuate anche dopo il voto, al punto che venerdì il rapper ha scritto su Twitter che i militari ugandesi hanno preso il controllo della sua casa, di fatto ponendolo agli arresti domiciliari. Nel pomeriggio di lunedì 18, l’ambasciatore statunitense, che aveva cercato di visitare Wine, era stato respinto dai militari.

Nonostante le accuse di Wine, è difficile dimostrare la regolarità o l’irregolarità del risultato elettorale, perché a parte una missione dell’Unione Africana, non ci sono stati organi internazionali a monitorare lo svolgimento del voto. Gli Stati Uniti avevano organizzato una missione diplomatica a questo scopo, ma hanno dovuto cancellarla perché la maggior parte dello staff della missione non aveva ricevuto il permesso di accedere ai seggi. Inoltre, per diversi giorni prima e dopo il voto i social network e numerosi siti internet sono stati bloccati, ufficialmente per evitare la circolazione di notizie false.

Andrea Spinelli Barrile, co-fondatore di Slow News e giornalista che da anni si occupa di Africa e della sua trasformazione, spiega quanto sia difficile accertare l’esito del voto. «Bisognerebbe essere proprio con le mani all’interno delle urne, contare voto per voto e vedere che cosa è successo», spiega. «Sicuramente è interessante perché la vittoria di Museveni non è la classica vittoria da “dinosauro” africano con l’80, il 90 o addirittura il 98% dei voti, ma ha decisamente margini più “democratici”. È vero poi che le opposizioni sono talmente frammentate, erano dodici i candidati presidente. Con un voto all’opposizione così diviso, è stato facile vincere le elezioni per uno dei leader africani più longevi di sempre. È altrettanto vero che già in passato Museveni si è reso protagonista di processi elettorali quantomeno dubbi. Non possiamo parlare di frodi, perché lui è ancora presidente, le cose sono andate avanti e quindi è anche difficile andare a rivangare nel passato. Aggiungiamo che Bobi Wine dal punto di vista comunicativo, è un po’ un Donald Trump, almeno nello stile. Quindi affermazioni molto forti, il cercare di buttare tutte le carte che si hanno in mano direttamente sul tavolo, cercando di fare il più chiasso possibile».

Con questa vittoria elettorale Museveni, che ha 76 anni, inizierà il suo sesto mandato consecutivo. È al potere dal 1986, quindi Bobi Wine essendo nato nel 1982, ha vissuto tutta la vita in un Paese con un solo presidente. Il tema generazionale incide sul voto favorendo Bobi Wine?

«Lui è una persona giovane, ha 38 anni, quindi rappresenta una gran parte, almeno dal punto di vista anagrafico, di un Paese che ha un’età media di 21,2 anni. Sommandola alla dimensione di classe, qui c’è la dicotomia dello scontro tra due generazioni. Da una parte c’è una vecchia Africa, quella di Museveni, l’Africa dei leader “dinosauri”. Oramai lui ha fatto un numero di mandati incalcolabile, perché poi di mezzo ci sono state rielezioni, tentativi di colpi di Stato per cui metterli in fila è veramente complesso. Bobi Wine invece rappresenta la nuova generazione di africani. È una persona giovane, che ha una voce molto ascoltata non solo in Uganda ma in tutto il continente africano. Per capire la caratura del personaggio, due settimane dopo l’inizio della pandemia da coronavirus in Uganda Bobi Wine si è chiuso in studio di registrazione e ha fatto una canzone nella quale raccomanda alle persone di stare attenti, di mantenere la distanza, di lavarsi le mani, di mettere le mascherine. Una canzone anche piuttosto orecchiabile, devo dire la verità, che poi è diventata una hit pazzesca, non solo in Uganda ma in tutto il continente africano, in Sudafrica è stata prima in classifica per diverse settimane. Questo per dire che ha una voce che è molto ascoltata e questo significa che ha molta influenza sulle persone. È altrettanto vero che poi alla fine quello che conta sono i risultati elettorali. La commissione elettorale ugandese ha detto che ha vinto Museveni, il processo elettorale non è stato possibile monitorarlo almeno dal punto di vista degli osservatori internazionali in una maniera chiara e trasparente. È anche vero che il blocco totale di Internet nei giorni delle elezioni, il blocco dei social media che continua ad andare avanti e il braccio di ferro fortissimo tra Museveni e i social media come Twitter, come Facebook diciamo che fanno venire quantomeno qualche dubbio sulla trasparenza di questo processo elettorale».

Bobi Wine raccoglie un voto generazionale, quello magari di chi non ha conosciuto un altro paese se con quello con Museveni e magari non per forza è scontento, ma almeno vorrebbe vedere cosa c’è dall’altra parte. Ma invece il consenso di Museveni dove si costruisce? C’è una componente importante di voto religioso in un Paese che per l’85% circa è cristiano, tra cattolici e protestanti?

«Sì, al punto che all’inizio della pandemia da coronavirus in Uganda uno dei sostenitori della medicina naturale e della necessità di chiudersi in chiesa a pregare per scacciare il virus era proprio il presidente Museveni, questo per dargli quantomeno una quota elettorale abbastanza importante. È un leader che sa dove andare a toccare l’essere umano per poi andargli a chiedere il voto. Non per niente è uno dei leader più longevi: essere da così tanto tempo al potere significa saperlo gestire, perché è molto più semplice paradossalmente fare un colpo di Stato rispetto a tenere il potere per trenta o quarant’anni. Sicuramente c’è una componente enorme di voto “religioso” nei confronti di Museveni, anche perché non è la prima volta che Museveni fa proposte di questo genere, e quindi è consapevole del peso che questo tipo di cultura, questo tipo di “politica” ha sull’elettorato, perché l’ha già fatto più volte, ha già fatto sparate di questo tipo, diciamo un pochino antiscientifiche diverse volte in diverse occasioni e anche durante la campagna elettorale. Lui si sente investito del potere da parte dell’Altissimo e quindi struttura la situazione in questo senso. Non possiamo capire effettivamente il reale peso che questo ha, perché il voto religioso non sempre viene manifestato come tale. La politicizzazione della religione, in particolare in Uganda, è molto forte, e quindi è difficile tirare fuori un dato concreto da questo. Sicuramente c’è un peso enorme, visto che proprio Museveni è abituato a fare campagna elettorale o a fare politica sfruttando i sentimenti religiosi della popolazione».

L’importanza della stabilità politica dell’Uganda è elevatissima, un po’ perché ha un esercito molto potente, ben armato e addestrato, e un po’ perché è uno dei punti chiave nelle politiche di accoglienza dei rifugiati dai conflitti per esempio in Somalia o in Sud Sudan. Esiste oggi un possibile punto di caduta di questa crisi post-elettorale? Sarà una bolla di sapone o possiamo aspettarci che la questione vada ancora avanti e magari arrivi a qualche interesse internazionale?

«Difficile a dire la verità, anche perché in questo momento la comunità internazionale è concentrata su altre questioni che purtroppo conosciamo tutti quanti bene. È molto difficile che ci sia una presa di posizione netta, definitiva e che quindi abbia poi qualche conseguenza politica locale da parte della comunità internazionale. Dall’altra parte Bobi Wine è ben lontano dall’essere dichiarato defunto del punto politicamente, perché è giovane, quantomeno c’è un dato anagrafico molto a suo vantaggio. È una persona famosa, per cui, anche lì, trattarlo come un qualunque oppositore di una dittaturaccia africana degli anni ottanta e quindi farlo sparire nel nulla o addirittura ammazzarlo non è un’operazione così semplice, perché è una persona estremamente nota a livello planetario. Sarebbe come se alle elezioni americane si candidasse Puff Daddy, ci fosse poi una situazione di stallo come quella che stiamo vedendo e Puff Daddy venisse minacciato di essere incarcerato. Ecco, sarebbe un’operazione assolutamente impensabile anche per un gigante del potere come Museveni. Probabilmente le polemiche andranno avanti per tanto tempo, probabilmente queste polemiche non produrranno nulla di concreto in Uganda, nel senso che Museveni terrà il potere e poi vedremo come andrà nelle prossime settimane, nei prossimi mesi ma soprattutto nei prossimi anni. Temo che bisognerà aspettare ancora un po’ prima di vedere un cambio al vertice della politica ugandese».