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Le incognite della ripresa culturale

«Nulla sarà più come prima». Questo leitmotiv ci accompagna da quasi un anno. Da quando il Covid-19 ha fatto irruzione nella nostra quotidianità. Viene però da dire in questo eterno presente in cui viviamo, sempre nuovo e sempre inatteso: “ma abbiamo pensato a come sarà il nostro futuro?” Ovviamente io guardo alla cultura, ai luoghi della memoria, alle realtà in cui si progetta il futuro attraverso il patrimonio.

In quello che i giornali definiscono il Recovery plan preparato dal governo italiano pare, dalle ultime notizie, che saranno 8 i miliardi destinati a turismo e cultura. L’intento è incrementare l’attrattività del Paese con l’ammodernamento delle infrastrutture materiali e immateriali, la creazione o il potenziamento delle strutture ricettive, con il coinvolgimento di capitali europei e di privati.

Poi si parlerebbe anche di un progetto “Cultura 4.0” per «promuovere l’integrazione tra scuola, università, impresa e luoghi della cultura attraverso l’interazione tra le imprese creative e artigianali con attività di formazione specialistica turistica, archeologica e di restauro».

Guardando all’Europa sappiamo che il “Next Generation Eu” vuole essere uno strumento per supportare la ripresa economico-sociale, partendo anche da alcune riflessioni già nell’Agenda Europa per la Cultura e in quella 2030 per lo Sviluppo Sostenibile. In linea generale ci si propone «di tutelare la vita umana e i necessari mezzi di sostentamento per costruire la ripresa». «L’Europa – ha detto Johannes Hahn, commissario europeo per la programmazione finanziaria della Ue – si risolleverà più competitiva, più resiliente e più sovrana di prima». Il Piano dovrà cioè guardare al futuro e non semplicemente al risanamento dell’esistente. A chi è nel mondo della cultura sembra naturale che questa abbia un ruolo nel raggiungimento degli obiettivi del Piano, perché è elemento cardine e strumento: della resilienza, dello sviluppo sostenibile e della sostenibilità sociale. Non a caso la Convenzione di Faro, sottoscritta da molti stati europei, e ratificata anche dall’Italia, dice che «la conservazione dell’eredità culturale, e il suo uso sostenibile, hanno come obiettivo lo sviluppo umano e la qualità della vita».

Chiarita brevemente la situazione, torniamo a quel «nulla sarà più come prima». Ci accorgiamo che nella mente di molti la frase suona come un «speriamo che quasi tutto torni come era».

Guardando alla mondo culturale direi che, se da un lato da parte di chi vi lavora c’è stata una non indifferente azione di resilienza, dall’altra molta politica non pare aver manifestato l’idea (mi piace illudermi che magari la si pensa ma non la si esprime) che la cultura sia fondamentale per la ripartenza.

Quello a cui assistiamo è un guardare a domani con azioni che «lasciano stupiti»: si promuove il turismo internazionale non facendo riferimento sufficiente al turismo di prossimità; si fanno bandi a livello locale per la gestione dei musei senza guardare alla ricerca sul patrimonio e al suo rapporto con i cittadini; si pensa al digitale in termini di social media (il Politecnico di Milano ci dice che solo il 24% dei musei italiani è dotato di un piano digitale e in compenso il 76% è presente almeno su un canale social, più facile da utilizzare, e un museo su quattro non utilizza nemmeno questi mezzi). A fronte di tutto questo, a voler essere realisti, i musei statali, civici o privati che siano, per lungo tempo non potranno avere i livelli di turismo internazionale di prima del Covid-19, e generalmente (quando possono) si stanno incamminando verso strade che guardano ai cittadini, cercando una loro partecipazione non occasionale, e lo fanno spesso attraverso le potenzialità del digitale. Le visite virtuali per esempio stanno rappresentando una risposta da cui difficilmente si potrà tornare indietro, ma questo pone il tema della qualità dell’offerta culturale e delle nuove professionalità.

La cultura potrebbe manifestarsi come leva di benessere sociale, e a questo punto solitamente si cita la Convenzione di Faro. In essa si parla di processi democratici, di accesso alla cultura per tutti, di sviluppo sostenibile, di partecipazione dei cittadini e di patrimonio. Belle intenzioni, ma come farle fruttare? Recentemente l’assemblea degli “Itinerari culturali europei” (di cui ricordo “Le strade dei valdesi” fanno parte) ha lanciato un “Manifesto” che vuole proprio trasformare in azioni pratiche queste parole, e presenterà nei prossimi mesi progetti e linee concrete al Consiglio d’Europa, ente a cui gli itinerari si riferiscono.

In generale l’idea di partenza è che la cultura è utile per i cittadini, e che questi vanno coinvolti. A questo punto la domanda è: ma cosa si intende per coinvolgimento? Significa fare dei referendum; dei bandi; creare delle consulte; dei concorsi di idee? l’elenco non è una provocazione: sono state spesso alcune delle vie praticate soprattutto della politica, locale o nazionale, per rendere “partecipata la cultura”. In realtà bastava forse qualcosa di diverso, ma un po’ più impegnativo, e cioè: rendere esplicite, e condivise dalla comunità, le finalità dei musei come «piattaforme di benessere sociale», individuandoli come «spazi pubblici vitali che si rivolgono alla società intera, e dunque possono svolgere un ruolo importante nello sviluppo dei legami e della coesione sociale, nella costruzione della cittadinanza e nella riflessione sulle identità collettive».

In effetti però questa via non è così facile; è più semplice burocraticamente allestire un bando, o turisticamente pensare a un’organizzazione “consumistica” della fruizione del bene patrimoniale.

Un museo ha per finalità il promuovere la conoscenza, il pensiero critico, la partecipazione e il benessere della comunità. «Al tema della partecipazione e dell’accessibilità – hanno detto in molti – darà senz’altro impulso la recente ratifica della Convenzione di Faro». Speriamo. Soprattutto mi auguro che la Convenzione sia presa sul serio dall’Europa alle amministrazioni locali. Speriamo cioè che si seguano gli incoraggiamenti per esempio ad attivare «forme di partenariato» per consentire il recupero, il restauro, la manutenzione, la gestione e la valorizzazione delle risorse culturali che sono presenti sui territori. Attraverso queste scelte, come dice anche il Manifesto degli itinerari culturali, passa lo sviluppo dell’Europa, e più localmente può passare la valorizzazione del nostro patrimonio, e magari favorire la crescita di imprese culturali e di nuova occupazione.