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Turchia, nuove condanne per il golpe del 2016

Nell’estate del 2016, in Turchia andava in scena un tentativo di colpo di Stato con l’obiettivo di rovesciare il presidente Recep Tayyip Erdoğan. Quell’azione fallì e fu seguita da una repressione durissima, che ha portato a decine di migliaia di licenziamenti, migliaia di arresti e a una più generale stretta sulle opposizioni politiche.

Lo scorso 26 novembre si è concluso il processo per le persone ritenute responsabili, soprattutto tra le gerarchie militari, chiudendo un cerchio le cui conseguenze sono ancora difficili da valutare in modo definitivo. Sono 337 le condanne all’ergastolo per questo colpo di Stato fallito, mentre altri 60 imputati sono stati condannati a pene minori e 75 sono stati assolti. Chiara Maritato, assegnista di ricerca del dipartimento di culture, politiche e società dell’università di Torino, racconta che «si condannano ufficiali dell’esercito soprattutto per aver organizzato, orchestrato e poi materialmente realizzato questo tentato golpe. Si tratta di ufficiali, molti dei quali di una base aerea vicino ad Ankara, Akıncı, che secondo l’accusa sono stati condannati perché da lì sono partiti gli ordini che hanno portato, per esempio, a bombardare il Parlamento, attuare quel colpo di Stato e di tentare di rovesciare il governo». Recentemente, Chiara Maritato ha presieduto, insieme a Bilge Yabanci (Università Ca’ Foscari di Venezia), un seminario organizzato dall’Università di Torino, insieme all’Università Ca’ Foscari di Venezia, l’Orientale di Napoli e l’Osservatorio Balcani e Caucaso–Transeuropa, dedicato allo stato dell’arte dell’opposizione a un potere sempre più presente.

Al di là delle cariche, chi viene condannato?

«È importante precisare che sono stati condannati all’ergastolo 100 ufficiali anche in riferimento all’appartenenza al movimento Gülen, movimento che era alleato di Erdogan, ma che secondo Ankara è dietro al colpo di Stato. L’accusa per questi ufficiali è di prendere ordini da Gülen,  l’ex alleato che oggi sta in Pennsylvania e che in questo modo avrebbe quindi fatto sì che venisse attuato il golpe. A partire soprattutto dal 2017, il movimento Gülen è considerato da Ankara un’organizzazione terroristica, proprio in virtù dell’accusa di aver partecipato alla realizzazione di questo colpo di Stato».

Al netto della natura terroristica o non terroristica, possiamo ritenere veramente l’organizzazione di Fethullah Gülen una realtà sovversiva rispetto all’ordine dello Stato turco?

«Possiamo dire che il movimento di Fethullah Gülen è stato da sempre, soprattutto con l’arrivo al potere di Erdogan, capace di inserirsi nelle istituzioni, anche appunto per la stessa volontà di Erdogan. Sono stati alleati, per Erdogan è stato sicuramente importante avere il supporto di questo movimento e dei suoi affiliati anche ovviamente per vincere le elezioni. Ma in cambio il movimento ha ottenuto che molti dei suoi membri entrassero poi a far parte delle istituzioni statali, anche in alte cariche dello Stato. Quindi non possiamo dire che il movimento fosse estraneo alla realtà politica o militare del Paese, proprio perché gli anni di governo avevano permesso di penetrare dentro la burocrazia. Questo ci porta a leggere poi il motivo delle “purghe”, delle espulsioni che ci sono state in seguito al colpo di Stato di molti dipendenti, della burocrazia, degli uffici pubblici, oltre che tra le più alte cariche dello Stato, proprio perché considerati appartenenti al Movimento Gülen. È importante ricordare però che in realtà i rapporti si erano incrinati già prima del colpo di Stato. Tutti ricordiamo le manifestazione di Gezi Park del 2013: nel dicembre di quell’anno e l’anno successivo, si era attuato il primo grande allontanamento tra l’ex alleato e il governo di Ankara. Quella delle tensioni tra i due leader va avanti da ben prima del colpo di Stato. Si tratta effettivamente di due leader, nel senso che ovviamente la loro alleanza sanciva poi una possibilità di governare il Paese, ma non c’è più spazio per entrambi, almeno al momento, in Turchia».

Quel golpe sarà pure fallito, ma ci ha consegnato una Turchia che vista dall’esterno è sicuramente diversa. C’è stato un reale cambiamento in termini di esercizio del potere?

«Sì, queste condanne non possono non richiamare altri arresti che senza sosta si stanno abbattendo sulla posizione politica e partitica in Turchia, oltre che appunto parlamentare. Se consideriamo il periodo post-Golpe, quindi negli ultimi quattro anni, ricordiamo che fino al 2018 la Turchia ha vissuto uno stato di emergenza, e che anche dopo il 2018 gli arresti hanno interessato giornalisti, attivisti, avvocati, difensori dei diritti umani, le opposizioni, in particolare il Partito Democratico dei Popoli (Halkların Demokratik Partisi – HDP), che ha molti esponenti in carcere, tra cui il leader Demirtas. Ultimamente continua anche la repressione nei confronti dei sindaci democraticamente eletti: a oggi si contano 151 sindaci eletti sospesi, di cui 73 in carcere. La maggior parte di questi sindaci appartengono proprio al Partito Democratico dei Popoli e sono stati eletti nel sud-est del Paese. L’accusa, anche qui, è di appartenere a organizzazioni terroristiche o di fare propaganda per esse. Questo ci fa comprendere prima di tutto l’erosione dello Stato di diritto, la presenza di una magistratura che sembra al servizio del potere politico. Ma credo ci sia anche un altro aspetto importante sia necessario aggiungere a questo quadro: quando i sindaci eletti vengono arrestati o sospesi, sono sostituiti da quelli che vengono chiamati Kayyum, quello che in Italia definiremmo “commissario”. È un termine che si utilizzava anche per riferirsi al guardiano della moschea, quindi un amministratore. In realtà si tratta di uomini vicini al governo, che si pongono alla guida di queste municipalità e che di fatto annullano la stessa funzione dei consigli comunali, per esempio non convocandoli. La politologa Sultan Tepe recentemente ha parlato di “Kayyumistan”, per indicare quella parte di Turchia che oggi trova amministrata con questa modalità. Non si tratta di comuni sparsi, una pratica che conosciamo anche bene nel nostro Paese, ma di un numero sempre maggiore di municipalità che sta quindi procedendo la sua vita politica senza rispettare la volontà espressa tramite le elezioni. Questo è un altro aspetto che sul lungo termine andrà a incidere su quella parte del paese».

Da un lato abbiamo una trasformazione in seno alla politica rappresentativa, dall’altra l’esperienza del 2016 ha dato vita a qualche nuovo movimento, soprattutto extra partitico, capace di rappresentare una nuova lettura dell’opposizione?

«Per quanto riguarda i movimenti sociali, in questi anni l’opposizione in Turchia ha continuato a svilupparsi nonostante la repressione. Penso soprattutto al movimento femminista, la pluralità di cui questo è costituito, ma che continua a opporsi ai numerosi tentativi di approvare per esempio leggi sul cosiddetto matrimonio riparatore, o a opporsi più di recente alla revoca della Convenzione di Istanbul contro la violenza contro le donne firmata dallo stesso governo dell’Akp, in un’altra fase della sua vita politica, nel 2011. Anche di recente, il 25 novembre, nella ricorrenza della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, la polizia ha attaccato la manifestazione. Di recente sono anche riprese alcune movimentazioni sindacali, soprattutto per quanto riguarda i minatori che tentano continuamente gli scioperare per porre all’attenzione la scarsità di diritti di cui con cui sono costretti a lavorare. Questo sicuramente è stato acuito anche dalla profonda crisi economica, questa ripresa anche dei movimenti sindacali e anche a seguito della crisi economica del 2018, che dal 2018 soprattutto sta attraversando, sta continuando a essere forte in Turchia. C’è poi ovviamente una opposizione partitica, che è sotto attacco soprattutto dopo la vittoria alle elezioni municipali nell’estate del 2019. Anche qui, è soprattutto il partito filo-curdo HDP a continuare a essere oggetto di una forte repressione, o comunque di una forte attenzione da parte del governo».

 

Foto: di Maurice Flesier, manifestazioni contro il colpo di Stato del 2016