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Quando la croce diventa una spada

L’uso della croce con nome e cognome delle donne che, per un motivo per l’altro (che non sta a noi giudicare) hanno abortito, sulle tombe nelle quali sono stati seppelliti i loro feti, è un gravissimo abuso e un atto di immane violenza psicologica e spirituale oltre che una violazione inaccettabile della privacy e dei diritti delle donne.

Non ripeterò quanto già espresso dal documento dell’Osservatorio interreligioso sulle violenze contro le donne, che mi vede totalmente d’accordo su tutti i punti.

Da cristiano e pastore voglio soffermarmi, in particolare, sull’abuso e il completo snaturamento del simbolo della croce che qui appare capovolto, assumendo le sembianze di una spada che affonda con violenza nell’anima delle donne.

In ambito cristiano l’uso della croce nei cimiteri, con l’incisione dei nomi e cognomi dei defunti, ha significato fino ad oggi la volontà di sottolineare la loro appartenenza a Gesù, il loro desiderio di accogliere la redenzione da lui promessa e la speranza della risurrezione.

Ma cosa accade quando sulla croce appaiono (per giunta a loro insaputa) i nomi di persone viventi?

Succede che allora la croce perda il suo valore simbolico per tornare ad essere quello che era in origine: uno strumento di tortura e di annientamento dei viventi, un congegno volto a punire con immane violenza per procurare il massimo della sofferenza a chi vi viene inchiodato, perché ritenuto colpevole di un grave crimine.

Mettere i nomi e cognomi delle donne su quelle croci significa inchiodarle ad esse, così come vi fu inchiodato Gesù.

Un supplizio orribile, per giunta compiuto da persone che pretendono di appartenere alla fede cristiana e che si illudono di agire in nome di Cristo.

Si tratta qualcosa di aberrante anche dal punto di vista teologico, un’aperta contraddizione del messaggio evangelico.

Ci troviamo, infatti, di fronte a “cristiani” che crocifiggono facendo ad altri ciò che è stato fatto al loro Signore.

Indipendentemente da quelle che possono essere le diverse posizioni delle chiese in materia di aborto, tutto questo rimane inaccettabile.

Per giunta, a questa crocifissione delle donne che hanno abortito, si aggiunge un ulteriore elemento di crudeltà.

Se il supplizio dei crocifissi prima o poi aveva una fine (se non altro perché essi esalavano l’ultimo respiro) e i loro corpi potevano finalmente essere rimossi dalla croce, qui ci troviamo di fronte a una tortura che non finisce, perché i nomi e cognomi di quelle donne rimangono inchiodati a quelle croci.

E un supplizio senza fine ha tutte le caratteristiche dell’inferno; un inferno sulla terra al quale esseri umani privi di empatia e misericordia condannano le donne che hanno abortito, mettendosi abusivamente al posto di un Signore che, per ovvi motivi, non può amare la crocifissione, men che meno la crocifissione eterna cui si condannano queste donne.

L’impatto emotivo, psicologico e spirituale di questa aberrazione che aggiunge dolore a dolore non può essere sottovalutato e richiede una risposta forte, sia da parte di coloro che si professano credenti (appartenenti a qualsiasi fede religiosa) sia da parte di coloro che non si riconoscono in alcuna fede. Ancor di più dovrebbero sentirsi interpellati a protestare e agire quanti confessano la propria fede in Gesù, colui che ha più volte ripetuto:

“Voglio misericordia e non sacrificio” (Matteo 9,13).