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Nuove vittime per le mine in Libia

Nessuna guerra è al sicuro dalle mine antipersona. Anzi, più precisamente, nessuna persona che vive in aree in conflitto è al sicuro dalle mine antipersona. L’ennesima prova arriva da Tripoli, in Libia, dove a fine giugno sono stati denunciati gli effetti di ordigni depositati nei quartieri sud della capitale libica, che hanno causato oltre cento morti e feriti, come sempre principalmente civili.

L’Unsmil, la missione delle Nazioni Unite nel Paese africano, ha accusato le truppe di Khalifa Haftar di aver lasciato campi minati alla periferia della capitale durante il ritiro. Il maresciallo della Cirenaica, infatti, ha assediato Tripoli dall’aprile 2019 al giugno 2020 prima di abbandonare il tentativo di espansione su tutta la Libia e ritirarsi verso Bengasi. La causa primaria è la crescente presenza militare turca a sostegno del governo di unità nazionale, guidato da Fayez al-Sarraj e riconosciuto dalle Nazioni Unite. «Purtroppo – racconta Giuseppe Schiavello, direttore della Campagna italiana contro le mine – perché la Libia non ha mai aderito al trattato di Ottawa, ma ancora di più perché questa pratica avviene normalmente in tutte le nazioni in guerra, che hanno diversi gruppi al loro interno e quindi fanno un uso terroristico di queste armi».

Il problema è noto e ampiamente condannato: posizionate a scopo militare, in questo caso per rallentare l’avanzata delle truppe nemiche, colpiscono in modo indiscriminato. «Il 90% delle vittime di questi ordigni – ricorda Schiavello – sono civili. Parliamo di donne, bambini, anziani, che sono costretti nella vita di tutti i giorni a spingersi magari su una strada per andare a un pozzo, oppure per raggiungere un villaggio o una città. È insopportabile il fatto che ancora si utilizzino in questo modo massivo le mine antipersona».

Dopo la denuncia da parte di Unsmil, l’Ufficio delle Nazioni Unite per gli affari umanitari ha chiesto l’apertura di un’investigazione internazionale su questi ordigni, per comprenderne la provenienza, anche alla luce del fatto che la Libia è sottoposta a un embargo sulle armi che in molti hanno in passato definito “una barzelletta”. Tuttavia, la situazione libica è ancora più complessa, perché prima della caduta di Gheddafi nel Paese erano presenti numerosi arsenali di grandi dimensioni, con migliaia e migliaia di ordigni che sono rimasti in balia dei vari gruppi armati. «Sono certamente mine non di provenienza e commercio recente – chiarisce Giuseppe Schiavello – ma sostanzialmente mine che hanno aspettato in questi arsenali di poter essere utilizzate». Quando il soffocante regime di Gheddafi ha lasciato il posto al caos in cui si trova la Libia dal 2011, il controllo su questa grande disponibilità di armi, munizioni e ordigni è venuto meno, favorendone il commercio illegale. «È per questo – prosegue il direttore della Campagna italiana contro le mine – che la distruzione che ne consegue aderendo al trattato di ottawa è così importante. Non dimentichiamo che se un arsenale viene scoperto da un gruppo criminale è possibile che si decida di utilizzare queste armi semplicemente per farci dei soldi». Vista la grande presenza di ordigni illegali nelle strutture di stoccaggio libiche, è molto probabile che le mine posizionate a sud di Tripoli non abbiano mai attraversato confini in tempi recenti. Tuttavia, chiarisce ancora Schiavello, «non possiamo escluderlo. La stigmatizzazione e l’investigazione da parte del mondo diplomatico e della società civile sul commercio e l’uso è importante, perché si potrebbe scoprire che magari un altro Paese che non fa parte di questa convenzione potrebbe illecitamente aver fatto pervenire queste armi. Il problema, il tallone d’Achille del diritto internazionale sono le sanzioni, perché tutti quanti, quando vengono scoperti a utilizzare mine in contesti internazionali dove la pratica viene condannata, negano. Il diritto internazionale, indebolito sotto il profilo delle sanzioni, rimane un cavallo zoppo»

Naturalmente, quella delle mine è una piaga che non riguarda soltanto la Libia, ma anzi affligge ancora molti teatri di guerra o ex teatri di guerra. Secondo il rapporto annuale 2019 sulle mine antipersona, pubblicato dall’Osservatorio delle Nazioni Unite, nel 2019 sono state 6.897 le vittime di questo tipo di ordigni ma anche di residuati bellici, di cui 3.059 i morti e 3.837 i feriti. Circa il 54% dei coinvolti sono bambini ignari della pericolosità degli oggetti che trovano sulla strada, magari a due passi da casa.

Simbolo del disastro causato dalle mine antipersona è sicuramente l’Afghanistan, la “guerra infinita” cominciata nel 1979 e che dal 2001 vede fortemente coinvolte le nazioni della Nato. Qui, in diverse aree sono proprio le mine la prima causa di morti e feriti, mostrando chiaramente l’inefficacia di questi strumenti a livello strategico. Eppure, l’Afghanistan è solo una delle molte zone di conflitto fortemente contaminate da ordigni che uccidono in modo indiscriminato. «Tutti i Paesi che sono stati interessati da guerre recenti o addirittura in corso – ricorda Schiavello – hanno questo problema, dallo Yemen alla Siria, dalla Cambogia all’Angola, addirittura la Bosnia-Erzegovina. Poi per lo Yemen c’è anche un problema di cluster bomb, mentre in Colombia vere e proprie mine antipersona potrebbero non essere presenti, ma ci sono migliaia e migliaia di ordigni improvvisati. Il problema è il coinvolgimento di attori non statali, non riconosciuti in termini generali ma che si riservano di utilizzare queste mine. Lo stesso problema c’è in Myanmar, dove la popolazione Rohingya si era spinta verso i confini, trovandoli minati».

A ottobre 2019, ancora 59 Stati erano contaminati da mine antiuomo. Nel 2018 sono stati bonificati almeno 140 chilometri di terreno contaminato. Inoltre, gli Stati che hanno aderito al Trattato di divieto delle mine hanno distrutto più di 55 milioni di mine antipersona stoccate, di cui oltre 1,4 milioni nel solo 2018.

Viviamo una fase storica in cui il diritto internazionale è in gravissima crisi, e allo stesso modo lo sono i trattati internazionali, anche quelli sugli armamenti, soprattutto per via dell’unilateralismo degli Stati Uniti e del rilancio delle politiche degli stati nazionali. Tuttavia, la Convenzione internazionale per la proibizione dell’uso, stoccaggio, produzione, vendita di mine antiuomo e relativa distruzione ha una storia lunga e che finora non sembra essere messa in dubbio. «Gli Stati – rassicura Giuseppe Schiavello – sono molto impegnati nelle donazioni tese a lenire questa problematica. Il trend dei fondi dati per la mine action, che racchiude un po’ tutte le attività, dalla bonifica all’educazione al rischio, all’universalizzazione dei trattati, al soccorso delle vittime, al reinserimento socio-economico, è di nuovo in crescita. Insomma, c’è una grande attenzione a questa questione».

Tornando a Tripoli, la presenza di mine sul terreno libico, teatro di un grande fallimento del diritto internazionale, era nota da tempo, al punto che il governo di Fayez al-Sarraj aveva chiesto sostegno all’Italia per mettere in atto un’azione di sminamento, avviata nella sua prima fase già lo scorso 14 giugno. Tuttavia, la strada è lunga, e il caos libico continua a colpire, come sempre, chi da questa guerra non trae alcun beneficio.