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Il ruolo del Consiglio delle chiese dello Zimbabwe

Il pastore Kenneth Mtata è segretario generale del Consiglio delle chiese dello Zimbabwe, nato negli anni ’60, che raccoglie 30 chiese membro protestanti e ortodosse. La chiesa cattolica è membro associato. L’intervista che qui proponiamo è tratta dal numero speciale de «Il Seminatore» – rivista a cura del Dipartimento di evangelizzazione dell’Unione cristiana evangelica battista d’Italia (Ucebi) – dedicato al viaggio che una delegazione di battisti italiani ha fatto in Zimbabwe nel novembre 2019 per verificare lo stato dei progetti in corso nell’ambito della partnership siglata nel 2006 tra l’Ucebi e la Convenzione battista dello Zimbabwe.

Past. Mtata, qual è la mission del Consiglio delle Chiese dello Zimbabwe?

«Il Consiglio delle chiese dello Zimbabwe è la voce comune delle chiese su questioni di interesse nazionale. Le chiese parlano insieme con voce profetica, rivolgendo interrogazioni al Governo e indirizzando messaggi al Paese. Nel periodo precedente le ultime elezioni, abbiamo incoraggiato a partecipare alle elezioni e a farlo in pace. E dopo le elezioni abbiamo affermato che la leadership del paese dipende non tanto da chi è eletto, ma da come gli zimbabwani stessi partecipano alla vita sociale per costruire lo Zimbabwe che vogliamo. Abbiamo richiamato tutti ad un processo di dialogo nazionale che ha come obiettivo uno Zimbabwe pacifico, unito, giusto e prospero per tutti». 

Nel 2020 lo Zimbabwe compie 40 anni di libertà dal dominio coloniale. Un bilancio.

«Questi 40 anni sono stati per noi come i quaranta anni del popolo di Israele nel deserto dopo la fine della schiavitù d’Egitto. Le attese dopo la conquista della libertà erano molto alte, ma camminando per 40 anni nel deserto gli israeliti si resero conto che imparare a vivere liberi era molto difficile. Questo possiamo dire anche per il viaggio dello Zimbabwe degli ultimi 40 anni. Questo paese era pieno di promesse ma ha dovuto affrontare moltissime difficoltà. Ci sono stati tempi di grandi speranze, altri di grande delusione. In questo momento affrontiamo grandi difficoltà».

Lei serve in questo organismo ecumenico da circa tre anni. Quali i risultati più promettenti?

«Negli ultimi tre anni abbiamo fatto molti passi avanti. Ad esempio abbiamo firmato insieme un memorandum con la chiesa cattolica per celebrare insieme i 500 anni della Riforma. Inoltre molte volte abbiamo rivolto appelli al governo».

Ed avete avuto risposta?

«Sì, ad esempio il 7 ottobre 2019 abbiamo pubblicato un appello a celebrare un tempo sabbatico nazionale in cui ci si fermi e si rifletta insieme su come affrontare l’attuale crisi. La nostra comunicazione era di 4 pagine e il governo ha risposto con 19 pagine. Il problema che abbiamo non è se ci rispondono, ma se prendono sul serio la loro stessa risposta, cioè se implementano quanto si impegnano a fare».

Il paese ha vissuto movimenti di piazza molto tesi, alcuni sfociati in violenza… 

«Sì, abbiamo avuto storie di persone rapite, torturate e la risposta del governo in alcuni casi è stata che loro non sapevano chi fossero i colpevoli. Che si sia d’accordo o meno con queste risposte, questo crea una grande insicurezza. Come chiese abbiamo preso posizione contro la violenza: vogliamo creare una società nonviolenta. Ma quando c’è una situazione di violenza strutturale e il governo dichiara che non sa chi ne sono i perpetratori, questo crea ansia. Se non sono stati loro, questo vuol dire che non sono in grado di garantire sicurezza dei cittadini, se invece i colpevoli sono pezzi deviati delle istituzioni, ma non sotto il controllo del presidente, questo vuol dire che c’è caos. Se poi è il governo stesso che agisce senza riconoscerlo, il problema è gravissimo. Quale che sia la verità, c’è grande preoccupazione che la chiesa avverte e segnala. 

Noi abbiamo fatto appello alla creazione di un processo di dialogo nazionale perché vogliamo creare una situazione per la quale anche chi è al potere possa sentirsi al sicuro per quanto riguarda il proprio futuro. Devono sentire che in caso di cambiamento nel governo essi non correrebbero rischi personali. Attualmente invece, se si esce dal governo non si sa cosa può accadere alla persona che non ha più alcun potere. E quando si creano situazioni del genere si è in trappola. Hai la sensazione che devi sempre stare al potere per garantirti la sicurezza. Questo evidentemente impedisce il processo democratico. Insomma, c’è un senso di incertezza che coinvolge anche chi è al potere».

Dunque l’idea è che sei al potere ma senti che non sei al sicuro. E se non hai alcun potere?

«Se non hai alcun potere vivi nella paura perché non puoi apertamente reclamare il tuo diritto, non sai come questo sarebbe letto. Il fatto poi che tu sai che il paese ha tante ricchezze ma inaccessibili, crea un sentimento di disperazione. È come un animale che ha molta sete, arriva al fiume, ma non può accedere all’acqua. Ci sei vicino, ma non ci arrivi. Questo crea frustrazione. La questione è: come creare una nuova narrazione che coltivi la speranza? Come fare a dire alle persone che la situazione può cambiare, e può cambiare per il benessere di tutti e non soltanto di pochi? Questo stiamo cercando di fare. Abbiamo bisogno di un futuro alternativo, dove tutti si sentano inclusi. Quando vivi in un ambiente dove le narrazioni sono esclusive, proporre una visione di inclusione è difficile. Ma ci proviamo, e possiamo provarci perché c’è fede. La fede offre qualcosa di diverso. La politica offre una immaginazione esclusiva, dentro o fuori, la fede invece indica la possibilità di un futuro in cui tutti siano inclusi e questo è qualcosa di unico che solo le chiese possono offrire in questo momento».