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Ricollocamenti mancati, arriva la sentenza

Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca non hanno rispettato le normative dell’Unione europea, e soprattutto i loro obblighi nei confronti dell’Unione, rifiutandosi di prendere parte attiva nello schema di ricollocamento dei rifugiati stabilito nel 2015. Ad affermarlo è un parere della Corte di Giustizia dell’Unione europea, che giovedì 2 aprile ha confemato le conclusioni dell’avvocata generale Eleanor Sharpston, che erano state presentate il 31 ottobre 2019.

La Corte ha stabilito che i governi non possono venire meno a una decisione legalmente adottata in base alle norme comunitarie, a cui avevano inoltre aderito.

Il 22 settembre 2015 il Consiglio dell’Unione Europea aveva deciso che 120.000 richiedenti asilo, arrivati in Europa attraverso l’Italia e la Grecia, dovessero essere ricollocati negli altri Paesi dell’Unione. Di questi 15.600 dall’Italia e 50.400 dalla Grecia, che nell’estate di quell’anno aveva visto transitare un milione di persone in fuga dai conflitti in Medio oriente e Asia centrale, in particolare da Siria, Iraq e Afghanistan, mentre una quota di 54.000 persone sarebbe stata ricollocata in proporzione.

Tuttavia, pur avendo sottoscritto l’impegno, la Repubblica Ceca aveva accolto soltanto 12 persone, mentre Polonia e l’Ungheria non avevano accettato nemmeno un richiedente asilo.

Per questo motivo, nel dicembre del 2017 la Commissione europea aveva denunciato i tre Paesi, e la sentenza di giovedì 2 aprile ha confermato la tesi di partenza.

La Polonia e l’Ungheria si sono difese sostenendo di avere il diritto di non rispettare l’accordo, citando una disposizione del trattato dell’Unione europea che afferma che i paesi membri hanno la responsabilità di mantenere la legge e l’ordine e di salvaguardare la sicurezza interna nei loro paesi. Tuttavia, il tribunale ha respinto questa posizione, affermando che la norma “non conferisce agli Stati membri il potere di discostarsi dalle disposizioni dell’Unione europea” e concludendo che “tali Stati membri non possono invocare né le loro responsabilità in materia di mantenimento dell’ordine pubblico e di salvaguardia della sicurezza interna né il presunto malfunzionamento del meccanismo di ricollocamento per sottrarsi all’esecuzione di tale meccanismo”. In particolare, la Corte ha rilevato che, per far valere questa posizione, i Paesi avrebbero dovuto dimostrare l’esistenza di una minaccia specifica. Già nel 2017 la Corte aveva respinto i ricorsi di Slovacchia e Ungheria contro le quote obbligatorie di richiedenti asilo.

Il piano di ricollocamento di emergenza del 2015 era stato rivisto nel 2017, quando venne ridotto a 33.000 persone, in seguito al mancato riconoscimento di circa tre quarti delle richieste di asilo da parte delle autorità italiane e greche, ed è scaduto nel settembre 2017. Proprio per questo i tre Paesi, che insieme alla Slovacchia costituiscono il cosiddetto “Gruppo di Visegrad”, fortemente critico verso numerose posizioni di Bruxelles, avevano sostenuto che la denuncia della Commissione dovesse essere considerata inammissibile, poiché riferita a un provvedimento non più attivo.

Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca ora sono tenute a rispettare la sentenza e adeguarsi alle norme sul ricollocamento, perché in caso contrario la Commissione potrà proporre un altro ricorso, chiedendo sanzioni pecuniarie.

Tuttavia, la sentenza non ha conseguenze concrete sul piano pratico, ma si limita a stabilire un precedente nell’ordinamento giuridico europeo. Per contro, può essere considerato un importante strumento per chiarire fin dove si spingano le prerogative degli Stati membri nell’ambito delle politiche migratorie di fronte agli impegni comuni.

Paradossalmente, mentre in Lussemburgo veniva confermata la sentenza, l’Ungheria firmava una lettera, promossa dall’Olanda, in cui si esprime preoccupazione per i pericoli che lo Stato di diritto corre in questo periodo in cui si stringono alcune regole.

Nella lettera si chiede che lo Stato di diritto venga rafforzato, e non indebolito, di fronte alle emergenze. La dichiarazione non menziona specificamente l’Ungheria, ma è indirizzata in modo chiaro al governo del Primo Ministro Viktor Orbán, che in settimana ha ottenuto “pieni poteri” dal Parlamento, a tempo indefinito, per affrontare la crisi sanitaria inn corso. Budapest, riporta Politico, ha dichiarato di essere “profondamente preoccupata per il rischio di violazioni dei principi dello Stato di diritto, della democrazia e dei diritti fondamentali derivanti dall’adozione di misure di emergenza”.

Foto Viktor Orban