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Coronavirus. Carceri, esplode la paura

Scuole chiuse, cinema chiusi, locali contingentati, distanze da rispettare, persone e famiglie nelle zone e rosse e gialle (per ora) invitate a stare a casa (un invito alla responsabilità purtroppo non adeguatamente recepito da molte persone), per tutelare se stesse e soprattutto per proteggere le persone più anziane, le immunodepresse e per non intasare le strutture ospedaliere e le sale di rianimazione. 

In questi ultimi giorni – dopo le semplificazioni iniziali che ci raccontavano di «una banale influenza» – le evidenze mediche e scientifiche degli effetti del corona virus hanno imposto maggior prudenza e al governo misure ancor più drastiche. 

Una situazione che mette ansia e che è accentuata dalla massiccia e monotematica comunicazione di massa. 

Un’ansia che, talvolta, degenera in panico anche tra le persone comuni e meno esposte ai rischi. 

Un’ansia vissuta dapprima nelle zone rosse, e ora estesasi anche alle comunità carcerarie che sentono di non potersi proteggere nel modo più adeguato e che vivono la consapevolezza di essere, in un certo senso, un possibile e pericoloso incubatore di contagio. Il segnale evidente di questo disagio sono le rivolte messe in atto dai detenuti nelle ultime ore e che hanno causato la morte di alcuni di loro.

«Sarà la magistratura a fare luce su queste tragiche morti – commenta il pastore valdese Francesco Sciotto, già coordinatore della Commissione carceri della Fcei –, per ora non sono chiare le dinamiche di queste morti. Ma la situazione evidenzia un disagio pregresso. Non a caso, l’ultimo decreto legge del governo e diramato per rispondere all’emergenza coronavirus contiene nella parte relativa alla gestione degli istituti penitenziari l’aumento della durata delle telefonate da parte dei detenuti ai famigliari e l’incentivo ad adottare misure alternative e di detenzione domiciliare». 

Il pastore Sciotto ricorda che, sino alla scorsa settimana, poteva visitare i detenuti, ora non gli è più permesso.

«Anche l’autocertificazione non è più sufficiente. Tutto questo insieme di limitazioni, ovviamente, aumenta la paura, le misure di prevenzione, resesi necessarie, non risolvono tuttavia un problema centrale del sistema penitenziario. Quei luoghi – dice a Riforma.it –  sono sovraffollati e le condizioni igienico-sanitarie sono spesso precarie. Nelle celle è difficile poter rispettare la distanza minima di un metro; spesso sono stanze di 6 metri (standard per ogni singola persona secondo le indicazioni previste dal Consiglio d’Europa, ndr). Quelle celle, oggi, per via del sovraffollamento di persone ne contengono sempre due, talvolta tre. Vi è un ulteriore problema, il carcere resta permeabile all’esterno malgrado le nuove restrizioni. Dunque, le decisioni prese dal governo con extrema ratio, purtroppo, non sono sufficienti a contrastare il problema del contagio e inoltre attenuano i diritti delle persone detenute che non possono più vedere i propri cari: uno dei pochi momenti di sollievo e di prospettiva nell’arco di una settimana di reclusione»

Questo provvedimento porta con sè una dicotomia di fondo: «da un lato il tentativo di arginare la diffusione del virus, dall’altra quello di voler chiudere una struttura che non può essere chiusa perché operatori, agenti penitenziari, educatori e personale sanitario, e giustamente, continuano a entrare e uscire da quelle strutture. È già noto – rileva Sciotto – il caso di un agente positivo al virus». 

Uno dei temi dirimenti per il pastore è dunque il sovraffollamento. 

Al 30 giugno 2019 ricorda l’ultimo rapporto dell’associazione Antigone i detenuti ristretti nelle 190 carceri italiane erano 60.522. Cresciuti di 1.763 unità nell’ultimo anno. Il tasso di sovraffollamento è pari al 119,8%, ossia il più alto nell’area dell’Unione Europea, seguito da quello in Ungheria e Francia. Il Ministero della Giustizia precisa che i posti disponibili nelle carceri italiane sono 50.496, un dato che non tiene conto delle sezioni chiuse.

«L’indice di congestionamento è evidente – prosegue Sciotto –, chi frequenta le carceri italiane lo percepisce chiaramente». 

Una delle precauzioni, la più importante, diramate per contrastare il diffondersi del visrus è proprio quella di evitare i luoghi sovraffollati. 

«Il carcere è oggi per definizione un luogo sovraffollato. E lo sarebbe anche qualora si rispettassero le 48 mila persone detenute previste dalla legge e dalla capienza delle strutture. Oggi, dunque, non è sufficiente eliminare le visite esterne; si dovrebbe fare tutto il possibile per decongestionarle. A esempio, e non sono il primo a dirlo, fare in modo che le persone più esposte al contagio e alla possibile malattia possano, in questa fase particolare, vivere la loro pena in un luogo alternativo. Attivare misure diverse a quelle del carcere anche per le persone che sono a fine pena». 

Il carcere è lo specchio di ciò che accade anche fuori, ricorda ancora Sciotto, «Anche nella società “libera” osserviamo scene che vanno dall’eccesso di tranquillità all’eccesso di panico, scene di isteria, di fuga. Dunque, è evidente che anche nelle carceri vi siano le medesime reazioni, e talvolta non razionali».  

Nel frattempo in Iran, dove il virus ha già contagiato ottomila persone, il capo della magistratura di Teheran, Ebrahim Raisi, ha rilasciato, con permessi temporanei, circa 70 mila detenuti. 

«Anche noi dovremmo fare scuola in Europa, siamo il paese più colpito – prosegue Sciotto –. Dovremmo essere noi a dare il primo esempio. Abbiamo gli strumenti giuridici per farlo: nella nostra Costituzione vi è scritto che la pena non è solo detentiva. Come Paese non abbiamo mai investito sulle misure alternative, sul personale che si occupi della esecuzione penale esterna. Anche il recente decreto, se non recepito livello locale, potrebbe non portare benefici immediati. Il problema non è dunque copiare l’esempio che ci arriva dall’estero ma essere noi l’esempio, mettendo in campo strumenti adeguati. Sarebbe necessario avere più coraggio e lo Stato dovrebbe porsi seriamente una domanda: cosa fare per risolvere il problema del sovraffollamento».

Nel 2019 sono morte per suicidio tra detenuti e guardi carcerarie 53 persone. «Il carcere – conclude Sciotto – è un luogo dove è più facile ammalarsi perché è più difficile poter accedere alle cure; un luogo dove è più facile soffrire di depressione perché si vive di fatto una solitudine affettiva. La punta dell’iceberg è proprio la conta annuale dei suicidi. Il carcere è un luogo fragile e nella situazione di emergenza che stiamo vivendo, questa fragilità aumenta. Ritengo sia importante poter mettere in campo qualsiasi mossa per mitigare la situazione attuale. E poi, ad allarme corona virus finito, mettere mano al problema del sovraffollamento carcerario».