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La religiosità laica di Fabrizio De Andrè

Ebbene sì, come negarlo? A questo punto, occorre ammetterlo: non possiamo non dirci deandreiani. E non riusciamo più a fare a meno, pur nello scorrere rapido delle generazioni, di Marinella con il suo fascino malinconico e del pacifismo ante litteram di Piero, della sfacciataggine solare di “Bocca di rosa” e dello sguardo lucido sulla realtà dei dormienti sulla collina recuperati da Spoon River; ma anche del ritorno alle radici di Creuza de mä e dell’inno alla dignità degli sconfitti dalla vita di Smisurata preghiera. Perché è innegabile che, nei due decenni trascorsi dalla prematura scomparsa (avvenuta nella sua Genova l’11 gennaio 1999), Fabrizio De André abbia conseguito uno status di “classico”.

E se per Italo Calvino i classici sono i libri che, quanto più si crede di conoscerli per sentito dire, tanto più, se letti davvero, si trovano nuovi e inattesi, la cosa vale anche per l’universo solo apparentemente leggero delle “canzonette”, e indubbiamente per “Faber”. La cui produzione registra un’ampia fioritura di iniziative (concerti live ritrovati, cover band in tutta la penisola, trasmissioni radiotelevisive, pubblicazioni e caccia ai memorabilia), a un livello senza precedenti alle nostre latitudini.

Ci si dovrebbe chiedere il perché, semmai: a partire dal fatto che il cantautore ligure sta intercettando, soprattutto post-mortem, un bisogno di poesia e di legami sociali mai sopito eppure oggi particolarmente carente. Fino alla sua capacità di tenere assieme in un cocktail tipicamente postmoderno, senza farli stridere troppo, echi dei menestrelli medievali, Novecento letterario yankeeed esistenzialismo francese, un background anarchico mai rinnegato e un ateismo ragionato. Sia come sia, non si tratta dell’effetto-nostalgia di cui si è preda approdati alla boa di “una certa età”, visto che molti protagonisti degli eventi richiamati sono giovani, che all’epoca dei suoi storici album concept – da Tutti morimmo a stento a Storia di un impiegato – non erano nati, e hanno ben più dimestichezza con la musica immateriale di Spotify che con i “padelloni” in vinile con cui trafficavano i loro genitori o i loro nonni. 

È intrigante che uno dei primi temi, forse addirittura un suo Leitmotiv, sia la religione cristiana, intesa come tradimento del suo significato delle origini. In effetti, come appare evidente nella sua biografia, l’humus da cui nascono i brani iniziali di De André – sono gli anni che costeggiano il Vaticano II – è impastato dal rigetto del cattolicesimo d’ordinanza, preconciliare e di matrice bigotta, respirato in gioventù a pieni polmoni; mentre fra i principali obiettivi polemici di pezzi arcinoti – da La guerra di Piero La ballata del Miché, a esempio – ci sono il militarismo, l’ipocrisia, la stupidità dell’istituzione religiosa, più che il messaggio evangelico in sé. Su cui, peraltro, avrà parecchio da dire, in maniera originale e per nulla depositaria.

Nel suo canzoniere, del resto, Gesù – da lui più volte presentato come il più grande rivoluzionario della storia – occupa uno spazio rilevante, dagli esordi (Si chiamava Gesù, censurata dalla Rai democristiana e trasmessa senza problemi da Radio Vaticana che ne coglie l’afflato ideale e la ricerca umanissima) alla maturità (la rilettura commossa della relazione fra Maria Maddalena e il “marinaio”nella Suzanne tratta da Leonard Cohen). Cosa che – vale la pena di ribadirlo una volta di più, a scanso di spiacevoli equivoci oggi in agguato – non equivale per nulla a inserirlo nell’alveo di una confessione religiosa ufficiale, e tanto meno a eleggerlo, ci mancherebbe, ad ateo devoto anzitempo. Ai suoi occhi, l’istituzionalizzazione del rapporto con il mistero, per cui quest’ultimo non è più considerato tale ma diventa un semplice quesito di cui si pretende di possedere la chiave, comporta il sacrificio di Dio, la sua uccisione (quella stessa fotografata dal collega Guccini in Dio è morto). 

Quella di Fabrizio potremmo dirla una religiosità laica, che, come nel cristianesimo primitivo, fa, pasolinianamente, dell’uomo vituperato e vilipeso dal potere e dai potenti l’oggetto di un amore infinito. Beninteso, non ci sono templi o preti per questo culto dell’uomo; mentre ogni spazio, sia un bordello, un campo rom, una cella, è in grado di trasformarsi in uno spazio dove celebrare l’umanità dei perdenti, in cui ogni prostituta, furfante, suicida possono divenirne gli officianti. Non è un caso che, anni dopo l’uscita de La buona novella (1970), album ispirato, com’è noto, agli apocrifi per evitare l’incagliamento nell’“ufficio stampa di Gesù (i vangeli canonici), si troverà ad ammettere, pur senza velleità teologiche: «Avevo urgenza di salvare il cristianesimo dal cattolicesimo». Rileggendo tale ambizioso proposito, tornano in mente le frasi con cui Antonio Balletto, il prete concittadino che ne celebrò i funerali con don Gallo, lo salutò, davanti a una folla strabocchevole: «Non dimenticare De André ci aiuta a tirare avanti, a credere ancora all’uomo e al suo futuro. E ci aiuta a conservare un po’ d’umanità, in tempi che non sarebbero piaciuti per nulla a Fabrizio e che non piacciono neppure a noi». Il che, a conti fatti, oltre a spiegare bene il perdurare del suo mito, non appare davvero un esito dappoco.