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Una festa di libertà

XVII Febbraio: concessione, nel 1848, dei diritti civili e politici ai valdesi prima, e qualche giorno dopo anche agli ebrei. Vorremmo festeggiare nel pensiero della bella ricorrenza. Vorremmo poter dire: avevamo ragione, i Savoia e poi l’Italia hanno dovuto riconoscere che queste terre avevano sete di Evangelo, e noi abbiamo fatto la nostra parte. Infatti l’abbiamo fatta, ma non basta. Sappiamo infatti che tutto ciò che consegue dall’annuncio dell’Evangelo fa i conti con la realtà di un mondo che è ancora quello che è: imperfetto, provvisorio, ricco di ingiustizie, offese e sofferenze. Ma in questo mondo i valdesi hanno scelto con testardaggine montanara di voler annunciare la novità del Regno che viene; e poi hanno deciso di andare oltre le loro montagne e valli.

Oggi facciamo i conti (nel vero senso del termine) con il calo dei nostri membri di chiesa e con le emergenze di un mondo sempre più complesso, che violenta e mette in fuga tanti innocenti, a cui cerchiamo convintamente di dare approdo. In più ci tocca anche un altro compito: farci “segnalatori d’incendio”, orecchie dritte e sguardo attento a una realtà che rischia di farci ripiombare ad altre epoche.

Dedicare all’antisemitismo e all’odio la Settimana della libertà (16-23 febbraio) è stato opportuno: le chiese evangeliche hanno dimostrato di saper essere vigili su ciò che avviene, lo dicono le ultime intimidazioni sulle porte di concittadini ebrei, ce lo ricordano gli episodi di oltraggio, come avvenuto a Pomezia. Vorremmo dire con il salmista: «Allora tutti gli uomini temeranno, racconteranno l’opera di Dio e comprenderanno ciò che egli ha fatto. Il giusto esulterà nel Signore e cercherà rifugio in lui» (64, 9-10). E lo diciamo, perché sappiamo che cosa vuol dire sperare. Lavoriamo alla provvisorietà del nostro mondo, in mezzo alle sue storture, fiduciosi in quel Signore che ha sostenuto tante generazioni prima di noi.