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Stati Uniti, l’esercito potrà di nuovo utilizzare le mine antipersona

Lo scorso 31 gennaio gli Stati Uniti hanno annunciato di cancellare anni di politiche sulle mine antipersona, segnando un’inversione di rotta rispetto al divieto di produzione e uso introdotto durante l’amministrazione Obama. La moratoria, che prevedeva un’eccezione per la penisola coreana, altamente minata lungo il confine che separa Nord e Sud, aveva fatto sì che gli Stati Uniti fossero sostanzialmente allineati alla Convenzione internazionale per la proibizione dell’uso, stoccaggio, produzione, vendita di mine antiuomo e relativa distruzione del 1997, pur non avendola mai firmata né ratificata. 

Secondo la portavoce della Casa Bianca, Stephanie Grisham, la nuova politica voluta dall’amministrazione Trump autorizza i più alti ufficiali statunitensi a utilizzare, in “circostanze eccezionali”, mine antipersona “specificamente progettate per ridurre i danni ai civili e agli alleati”, con lo scopo di “dare ai militari la flessibilià e la capacità necessarie per vincere”.

Questa decisione segna un nuovo scollamento di Washington dagli accordi internazionali, così come già visto con l’Accordo di Parigi sul clima, oppure con l’intesa sul nucleare iraniano, o ancora con le armi nucleari e i missili a medio raggio. Tuttavia, l’impatto di questo cambio di direzione colpisce in modo particolare perché riguarda un’arma che più di ogni altra è capace di uccidere o menomare per sempre le persone in modo indiscriminato e incontrollato, colpendo soprattutto i civili. Secondo Giuseppe Schiavello, direttore della Campagna Italiana contro le mine, «è un pessimo segnale per tutta la comunità internazionale. Per quasi trent’anni gli Stati Uniti non hanno utilizzato mine antipersona, quindi si suppone che questa esigenza di protezione non ci fosse». 

Da dove si partiva?

«Il bando sulle mine non era mai stato firmato e ratificato dagli Stati Uniti, ma Washington si era adeguata in maniera sotto una spinta etica internazionale. Gli Stati Uniti risultano essere uno dei due principali soggetti donatori per la mine action, per la bonifica e l’assistenza alle vittime, insieme all’Unione europea. Questa decisione è stata uno schiaffo in faccia a tutte le vittime di questi ordigni e certamente non rassicura la comunità internazionale. È un’ennesima presa di posizione nel ribadire l’idea che gli Stati Uniti possano camminare da soli contro ogni evidenza e contro ogni condivisione a livello mondiale. Ricordiamo che sono 164 gli Stati che hanno firmato e ratificato questo trattato, praticamente l’ottanta per cento del pianeta».

La portavoce della Casa Bianca ha parlato di mine “di nuova generazione”. Di che cosa si tratta?

«Si fa riferimento a mine che Trump definisce essere “intelligenti”, capaci di andare in autodistruzione, ma sappiamo benissimo che la teoria è diversa dalla pratica. Un esempio: sulle cluster bomb si diceva che il tasso di fallimento dell’esplosione denunciato dai produttori era compreso tra l’uno e il tre per cento. Peccato che gli studi di ricercatori, di organizzazioni non governative, di esperti di diritti umani, abbiano dimostrato che queste armi falliscono per il 20%. Oggi non sappiamo quale sarà il reale tasso di fallimento di queste mine “intelligenti”, ma una cosa è certa: le mine più sicure sono quelle che non si produrranno mai».

È una decisione rilevante in sé, perché gli Stati uniti sono per distacco il più importante esercito al mondo. Si può temere un “effetto contagio” che porti altri Paesi a muoversi in quella direzione?

«Probabilmente chi potrebbe essere invitato a utilizzare più mine, tra l’altro non mine “intelligenti” ma più spesso ordigni improvvisati, sono i gruppi armati non statali, protagonisti di questi conflitti asimmetrici. Ci potrebbe quindi essere un’involuzione che però difficilmente riguarda gli Stati parte del trattato. L’Unione europea ha già preso posizione, così come il presidente della Convenzione, che ha richiamato gli Stati Uniti a rivedere la decisione. Allo stesso modo la Germania, e così faranno, nei prossimi mesi, anche gli altri Paesi che fanno parte di questo trattato. Gli Stati, la società civile e la stessa diplomazia non staranno a guardare».

Da anni l’Italia è in prima linea nel campo dell’azione contro le mine. Eppure, il disegno di legge sul contrasto al finanziamento delle imprese produttrici di mine persone non è ancora arrivato alla fine del percorso. Oggi a che punto siamo nel fornire strumenti capaci di “chiudere i rubinetti” economici di produttori e commercianti?

«Purtroppo ormai è ferma da aprile alla commissione Finanze della Camera. Abbiamo avuto tante rassicurazioni da tanti parlamentari, ma non siamo riusciti a parlare con la presidente della Commissione, Carla Ruocco, per una eventuale calendarizzazione. Ci sono state date delle rassicurazioni, ma siamo perplessi perché il disegno di legge era stato mandato alla firma del presidente della Repubblica e rimandato indietro per la correzione di una di un comma di un articolo, mentre oggi, a due anni dal rinvio, rimane bloccato in Parlamento. Ricordiamo che peraltro ha una procedura speciale, più veloce, perché era stato già discusso nella precedente legislatura, aveva già fatto un passaggio in Commissione e per questo aveva un percorso privilegiato ai sensi del regolamento del Senato. Il fatto che rimanga lì a marcire fa rabbia, perché fa capire che ci sono strumenti con i quali il nostro Paese può prendere ulteriori distanze da quegli ordini, distanze che ha già cominciato a prendere dal 1994 con una moratoria unilaterale su produzione e uso. Oggi l’Italia è uno degli interlocutori più credibili grazie all’impegno della nostra Agenzia di Cooperazione, per le nostre delegazioni al disarmo. Però il Parlamento ritiene di dover bloccare la legge. A questo punto devo pensare che ci siano degli ostruzionismi tecnici, visto che tutti sarebbero stati d’accordo, è una legge che è sempre stata votata in tutti i passaggi in otto anni, sempre all’unanimità».