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Da Malta passi incerti e confusi

«Oggi Italia e Malta non sono più sole, c’è la consapevolezza che i due paesi rappresentano la porta d’Europa». Con queste parole, la ministra dell’Interno italiana, Luciana Lamorgese, ha salutato e annunciato il primo parziale accordo sulle persone migranti sottoscritto lunedì 23 settembre a Malta da Italia, Malta, Francia, Germania e Finlandia, che detiene la presidenza di turno del Consiglio dell’Unione europea.

Anche se il testo non è completamente noto, la base di partenza è una bozza ottenuta e diffusa da Politico.eu lo scorso 19 settembre, ma con modifiche piuttosto rilevanti. Ora l’accordo dovrà essere discusso durante il Consiglio dell’Unione europea che si terrà in Lussemburgo il 7 e 8 ottobre, quando si cercherà di estendere il modello temporaneo ad altri Paesi. Secondo il testo, le persone migranti che arrivano in Italia e a Malta e che vengono soccorse lungo la rotta del Mediterraneo centrale verranno redistribuite nei Paesi europei aderenti entro quattro settimane dall’approdo.

«Le indiscrezioni di stampa – spiega Gianfranco Schiavone, giurista e vicepresidente di Asgi, l’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione, che invita comunque alla cautela in attesa del testo definitivo – sembrano riferirsi al fatto che i criteri per la redistribuzione sarebbero criteri non politici ma oggettivi, basati sul Pil del Paese e sulla popolazione, ovvero gli stessi criteri che erano stati presentati in sede di riforma del regolamento di Dublino, con la differenza che la ripartizione scatterebbe dopo che si è raggiunta una soglia al di sopra della quota assegnata al Paese».

L’intesa, che prevede un’adesione su base volontaria, riguarda esclusivamente la rotta del Mediterraneo centrale e solo una minoranza delle persone arrivate lungo questa rotta, ovvero quelle arrivate via mare attraverso operazioni di soccorso, quindi con navi militari o delle ong. Si tratta di una quota minima degli arrivi: nel 2019, infatti, sulle 6.844 persone arrivate in Italia, appena l’8% è stato soccorso, mentre la maggior parte è arrivata in maniera autonoma direttamente sulla costa. «Non c’è nessuna differenza giuridica – chiarisce Schiavone – fra chi chiede asilo dopo essere stato soccorso da una barca piuttosto che essere arrivato con la barca direttamente dei trafficanti». Inoltre, il fatto che si parli soltanto della rotta del Mediterraneo centrale esclude dall’intesa Spagna e Germania, ovvero i due Paesi maggiormente toccati dal fenomeno migratorio, rispettivamente con 19.782 e 41.490 arrivi nei primi nove mesi del 2019. E qui emerge uno dei punti deboli dell’intesa: se i criteri su cui si basa l’accordo fossero veramente adottati a livello di Unione, spiega Schiavone, «scopriremmo che l’Italia non deve ripartire proprio nessuno, perché è di gran lunga al di sotto della propria quota».

Inoltre, esiste una criticità di tipo procedurale: la rotazione dei porti di sbarco su base volontaria, richiesta e ottenuta dall’Italia, è in conflitto con il diritto del soccorso in mare, che prevede che i naufraghi vengano sbarcati il più velocemente possibile nel porto sicuro più vicino.

Anche se questo accordo somiglia per diversi aspetti a quello sottoscritto nel 2015, nel pieno della crisi siriana lungo la cosiddetta “rotta balcanica”, quando arrivarono in Europa oltre un milione di persone in cerca di protezione internazionale, ci sono alcune differenze sostanziali: quattro anni fa, infatti, il meccanismo di ricollocamento volontario voluto dalla Commissione europea riguardava soltanto chi aveva maggiori possibilità di ottenere uno status di protezione, mentre oggi coinvolge tutti i richiedenti asilo soccorsi in mare. «Quell’esperienza – ricorda Gianfranco Schiavone – fu fallimentare e in questo momento, per la tipologia degli arrivi estremamente diversificati, avrebbe significato una non ripartizione, per cui questo tema è stato abbandonato. I giornali hanno trattato il tema in maniera molto confusa, perché hanno parlato di un “no” alla ripartizione dei migranti economici, ma in realtà sono sempre e comunque richiedenti asilo».

I Paesi firmatari dell’accordo, che come detto dovrà essere ancora discusso in sede di Consiglio dell’Unione europea, hanno parlato di un primo passo verso una riforma del Regolamento di Dublino, che disciplina la competenza per l’esame delle domande di protezione internazionale e che era già stato modificato dal Parlamento europeo in base al testo formulato dall’europarlamentare italiana Elly Schlein, una proposta che non è mai riuscita a compiere i passi successivi. In realtà, l’impressione è che non ci siano i margini politici per arrivare a una nuova regolamentazione. «Tutte le riforme sull’asilo non sono state approvate», ricorda ancora Schiavone, «né il Regolamento Dublino, né le altre direttive. Ora sarà ancora più difficile, perché abbiamo una Commissione particolarmente debole e un Parlamento europeo più frammentato rispetto alla scorsa legislatura». Oggi la prospettiva più realistica è quella di accordi regionali e temporanei come quello di Malta, che rappresentano certamente un passo in avanti rispetto alle navi bloccate in acque internazionali, ma non rappresenta una strada percorribile nel lungo periodo. Secondo il vicepresidente di Asgi, servono accordi «che riguardano un numero significativo di Paesi, in modo da isolare quelli che non intendono agire e devono essere basati su criteri che il più possibile siano vicini a quelli che poi verranno veramente adottati a regime, tra i quali uno di cui non si parla assolutamente più ma che era determinante nella riforma del regolamento Dublino adottato dal precedente Parlamento europeo, cioè il principio dei legami significativi delle persone», un principio che permetterebbe di superare in modo finalmente significativo il principio della competenza su base meramente geografica, oggi radicato nella normativa ed evidentemente inefficace, oltre che dannoso in termini di coesione dell’Unione europea.

L’impressione che emerge da questa intesa, in definitiva, è quello di un passo molto timido in una direzione ancora incerta, testimoniata anche dalle successive dichiarazioni della ministra Lamorgese, che ha confermato che gli accordi Italia-Libia del febbraio 2017, che prevedono il finanziamento e l’addestramento della cosiddetta guardia costiera libica, non verranno per il momento rivisti. Parole a cui fanno eco quelle del ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, che ha parlato della necessità di «bloccare le partenze» e «stabilizzare la Libia», un Paese in cui oggi sono note e documentate le sistematiche violazioni dei diritti umani, non esclusivamente dipendenti dall’instabilità politica, ma da un apparato statale che si appoggia a milizie legittimate da un ruolo ufficiale. Per vere soluzioni, insomma, bisognerà ancora attendere.