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Il Dio dei poveri

Alla sessione di formazione ecumenica del Sae in corso ad Assisi la giornata di giovedì è dedicata al tema “Il Dio dei poveri”. Poveri sono i migranti, i rifugiati, i senza tetto per i quali alla vigilia si è pregato in una celebrazione ecumenica nella basilica di Santa Maria degli Angeli, di fronte alla Porziuncola, uno dei luoghi cari a Francesco che qui comprese la sua vocazione e accolse i primi frati. Un ricordo alle madri che hanno perso i loro figli nel Mediterraneo e nel deserto, ai prigionieri nei campi di detenzione, a chi è ancora in viaggio per fuggire alla povertà estrema. Una brocca d’acqua, una micca di pane, una coperta termica sono stati i simboli per ricordare quanti bussano oggi alle nostre porte in cerca di quella sicurezza e di quei beni di prima necessità posseduti da chi è chiamato a condividerli.

Il tema del Dio dei poveri è stato introdotto nella meditazione biblica mattutina offerta dal presbitero bolognese Matteo Prodi che ha commentato il brano lucano della chiamata del ricco Zaccheo, in realtà un povero che cerca di vedere Gesù mentre sta entrando in Gerico. «La chiamata di Gesù – “oggi devo venire a casa tua” – è la miccia che accende in Zaccheo una potenza impressionante, segno che qualcosa era pronto in lui. Zaccheo traccia una nitida immagine della chiesa che verrà nella quale “i pubblicani e le prostitute vi precederanno”, cioè nella quale vi apriranno un cammino». La conversione di Zaccheo, ha proseguito Prodi, «è molto laica: mette le mani dove il suo cuore è più attaccato, la ricchezza materiale. Riesce a farlo perché qualcuno si è preso cura di lui, ha messo gli occhi nei suoi occhi». E risuona ancora la visione di papa Francesco, tracciata nella giornata di ieri: le ricchezze sono relazionali e servono per costruire la fratellanza universale. Questo ci dice la decisione di Zaccheo di come disporre dei propri beni. E oggi? Come nei credenti e nelle istituzioni ecclesiali e religiose si valuta e si vive questa realtà? Si è dialogato sul tema nella tavola rotonda interreligiosa il cui titolo ha preso spunto da una frase di Lutero: «”Siamo mendicanti, questo è vero”: il Dio dei poveri». Un tavolo a quattro voci: ebraica, Anna Foa, con un intervento a distanza; cattolica, Stefania Monti; valdese, Paolo Ricca; musulmana, Yassine Lafram.

Nell’ebraismo – scrive Foa – la povertà è relazionata alla zedaquah, l’atto di riparare a essa ad opera dello zaddiq, l’uomo che soddisfa il precetto del soccorrere il povero. Non si tratta di una elargizione volontaria ma dell’osservanza di un precetto. La pratica della carità secondo giustizia aiuta a perdonare i peccati. Secondo l’esegeta medievale Maimonide – noto anche attraverso l’acronimo Rambam – la zedaquah è il precetto che occorre osservare maggiormente. Nella concezione mosaica la ricchezza è un prestito proveniente da Dio e i poveri hanno un certo diritto ai beni dei ricchi, mentre i ricchi sono esortati a condividere la generosità di Dio con i poveri. L’intervento della storica, letto da Piero Stefani, ha riguardato anche la città di Sodoma, una società ricca il cui peccato è il rifiuto dell’ospitalità agli stranieri e della zedaqah ai poveri. In un trattato del Talmud babilonese si parla di due giovani donne punite per aver disobbedito a una legge iniqua di Sodoma che impediva il sostegno ai poveri.

La povertà in Francesco – ha esordito Stefania Monti – «è orientata alla fraternità e alla pace». La clarissa cappuccina ha osservato che «l’essere poveri è un dato della condizione umana». Sia che si nasca in una clinica di lusso o in altro luogo, la fragilità di fondo rimane. Dio ama i poveri e sta dalla loro parte, ma non accetta la povertà che nasce dalla violenza e dalla sopraffazione. Le invettive del profeta Amos e di Giacomo sono abbastanza eloquenti. Nei salmi si parla frequentemente di poveri e povertà. In certi casi chi genera povertà viene considerato omicida. In una situazione che la biblista vede drammatica e con poche soluzioni in vista «possiamo ascoltare i poveri, riconoscersi tali quanto alla ricerca di senso e cercare di cambiare i nostri stili di vita». Francesco ha fatto della povertà la cifra della sua vita, tra i simboli ha preferito la nudità; ha scelto i minores, i più piccoli, una scelta radicale che i suoi frati non hanno accettato.

Il teologo valdese Paolo Ricca, decano dell’ecumenismo in Italia, commentando Martin Lutero si è soffermato sulla povertà in senso esistenziale, trovando tre significati all’affermazione del riformatore: «Siamo mendicanti di senso perché abbiamo difficoltà a capire. Tutto è avvolto nel mistero. Più vado avanti e meno conosco e più il mistero si infittisce. Alla fine della vita solo Dio saprà fare luce sul mistero». Un secondo significato della frase di Lutero secondo Ricca è che il cristiano è povero di potere. Dio è il Dio dei poveri di potere, ma non nel senso mondano della parola potere. Qui c’è l’ambivalenza del discorso biblico sul futuro. Da un lato Gesù stesso dice: “A me è stato dato ogni potere”. E’ vero anche che sta scritto “Voi riceverete potere quando lo Spirito santo verrà su di voi”. E anche prima egli chiamò a sé i suoi discepoli e diede loro potere di cacciare gli spiriti maligni. L’altra promessa impressionante di Gesù riferita da Giovanni è sul perdono dei peccati. D’altra parte Gesù dice: “Senza di me non potete fare nulla”. Siamo totalmente impotenti. Come usciamo da questa contraddizione?». Ricca osserva: «Non abbiamo nessun potere ma abbiamo lo Spirito Santo e la Parola, questa è la dialettica. Non possiamo nulla e possiamo tutto. Siamo mendicanti del potere di Dio in noi, siamo a mani vuote». Infine «siamo mendicanti della grazia, perché non abbiamo nessun merito. La fede ci è venuta misteriosamente, “contro” di noi. Siamo stati fatti prigionieri dalla Parola di Dio, ed eccoci qua. E le nostre buone opere – come la zedaqah di cui abbiamo parlato– sono state preparate da Dio perché le praticassimo. I gesti di amore sono un’iniziativa di Dio che ci introduce nel regno della gratuità dove non c’è più vanto, boria, orgoglio. Perché “chi si vanti si vanti nel Signore”».

Yassine Lafram, presidente dell’Ucoii, per la prima volta relatore alla sessione del Sae, ha premesso il tema inquadrando la religione islamica nei sui capisaldi e mostrando le affinità con la religione ebraica e cristiana con le quali, ha detto, «ci sentiamo legati». «Noi crediamo nei profeti biblici del vecchio e del nuovo Testamento come testi rivelati da Dio. Chi non ci crede non è considerato musulmano a pieno titolo». Felice di partecipare alla tavola rotonda, Lafram ha definito il dialogo interreligioso «non una moda di stagione ma la quotidianità. Teme il dialogo chi non ha un’identità consistente, chi è vulnerabile. Il dialogo aiuta a conoscere l’altro e anche a conoscere noi stessi». Entrando nel tema dell’incontro, ha spiegato che la carità ha un posto importante nel Libro del Corano e nei detti del Profeta (adith) dove è scritto che «l’ombra del credente nel giorno del giudizio sarà la sua carità». Posta l’importanza della preghiera nella vita del musulmano, «anche la carità è intesa da Dio come atto di culto: nessuno sarà credente se non ama suo fratello come ama se stesso. Facciamo parte di un corpo, e se un organo è malato ne risentono anche gli altri. L’accoglienza ha un significato molto importante: chi rifiuta di aiutare un orfano e un povero rinnega Dio. La carità è una virtù da praticare sia nelle avversità che nella prosperità». Lafram ha descritto diversi tipi di elemosina, materiale e spirituale, tra cui la zakat, che è uno dei cinque pilastri dell’Islam, ed è destinata a otto categorie di persone e situazioni. E che sta a ricordare che ciò che si possiede non è nostro, ma è di Dio.

Dopo i laboratori del pomeriggio, si tiene il culto di Santa Cena presieduto dalla coppia pastorale Ulrike e William Jourdan della Chiesa valdese di Genova, con la predicazione sulla pericope della vedova di Sarepta (1Re 17,7-16). In serata la proiezione del film Dustur, frutto di un progetto sulla Costituzione realizzato con gli ospiti del carcere della Dozza di Bologna. Lo introduce Ignazio De Francesco, monaco della Piccola Famiglia dell’Annunziata di Bologna, che vi ha lavorato insieme a Yassine Lafram.

Foto di Laura Caffagnini