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Un rischio per il pluralismo

Il provvedimento era stato annunciato a metà ottobre in un comunicato della Presidenza del Consiglio, che diceva: «Si prevede l’azzeramento graduale del fondo pubblico per l’editoria». Il sottosegretario Crimi ha poi dichiarato, a metà dicembre, che esso non è punitivo nei confronti dei giornali, perché dichiarato già da dieci anni, al momento della nascita del Movimento 5 stelle, insieme all’abolizione dell’Ordine dei giornalisti. La ridefinizione dei contributi all’editoria, comunque si traduca nella fase attuativa, inciderà in maniera pesante sui bilanci di testate medie e piccole, su organi d’informazione diocesani o di minoranze linguistiche e religiose (anche Riforma), o legate alla cooperazione, costringendone alcuni a drastici ridimensionamenti.

Il provvedimento giunge in una fase di polemica dura, da parte di molta stampa «illustre», a cominciare da quotidiani di maggiore diffusione nazionale, peraltro non coinvolti dall’operazione; giornali spesso additati dal Governo come pregiudizialmente ostili. Ma, proprio per questo motivo, cioè l’ipotetico strapotere di alcune testate, varrebbe la pena che un governo (qualunque governo!) aiutasse, anziché indebolire, le possibili voci alternative, comprese quelle che non danno corso a inserzioni pubblicitarie. Il pluralismo va a vantaggio di tutti: più sono varie e articolate le voci che alimentano il dibattito culturale e politico, più un paese sarà civile. Ma diciamo meglio, con una constatazione ancor più amara: un provvedimento del genere colpisce non solo i giornali, ma soprattutto i loro lettori, ciò che è più grave ancora. O si pensa che a lettori e lettrici sia sufficiente abbeverarsi alle fonti senza controllo dei nuovi media?

Detto questo però, non basta lamentarsi, perché il problema è anche culturale. Cambiano le strategie, le forme e i mezzi d’informazione, e dunque anche i loro linguaggi. Ma non basta impratichirsi di nuovi media e di linguaggi più moderni per stare al passo con i tempi. Stare al passo con i tempi significa innanzitutto capire come vivono i lettori: e questo deve essere un impegno tanto della politica quanto di chi fa informazione. Un tempo, certo, era tutto più semplice. La vecchia contadina, mai uscita dal proprio villaggio, di cui parla lo scrittore Robert Walser (1876-1956) in un suo racconto, dopo aver imparato a leggere la Bibbia, era abituata a leggere ogni giorno, magari a fatica, il giornale. Di lei dice l’autore: «Tutte le esperienze e tutti i ricordi della sua lunga vita la aiutano a decifrare le parole e le frasi, e si fissano pensierosi nei suoi occhi attenti».

Ecco, proprio qui sta buona parte del problema: la vecchina del racconto, e i suoi compaesani (più le donne degli uomini, probabilmente) sapevano bene dove incominciava e dove finiva il loro mondo; sapevano che c’erano altri villaggi vicini, e poi più grandi città, paesi lontani e piroscafi su cui i più coraggiosi (o disperati) si imbarcavano per cercare fortuna all’altro capo del pianeta. Ma, appunto, proprio l’esperienza precisa, antica, materiale della propria vita come ognuno e ognuna la viveva, rendeva quella vecchina capace di leggere le notizie degli «altri». L’incertezza che oggi caratterizza giovani e anziani, sempre più spaesati nella precarietà e nella mancanza di valori condivisi, rende difficile cogliere nel giornale (su carta o su web) l’esistenza di un mondo «altro» con cui confrontarci; tendiamo a chiuderci in noi stessi, anche se con un click ci sprofondiamo in paesaggi esotici e in guerre dimenticate. Cerchiamo conferme a ciò che siamo, rinunciando a dialogare con altre istanze e altre visioni del mondo. Qui tutti dobbiamo fare uno sforzo per ricuperare il valore della funzione di mediazione della parola: tra gli individui, tra le culture, tra i patrimoni che costituiscono la vita di ogni persona.

Qui però, Riforma ritiene di avere un compito particolare. Se tutti gli operatori dell’informazione (giornalisti, editori) hanno il diritto/dovere di difendere la propria struttura e il proprio futuro di giornali, forse Riforma ha da dire una parola diversa. Tutti hanno come loro missione la ricerca della verità: e noi, da credenti, siamo solidali con tutti questi colleghi e colleghe, ma la molla che ci spinge in questo lavoro non è tanto la ricerca della verità «secondo noi», quanto il compito di testimoniare una verità più grande, quella appresa dall’Evangelo. Non ci sogniamo di esserne i detentori, nessuno lo è su questa terra, ma ci sforziamo di riferire che da questa verità siamo stati toccati e coinvolti, come ne sono state toccate le persone e le comunità locali di cui raccontiamo le storie. Anche quelle delle chiese sorelle sparse nel mondo, che noi chiamiamo ecumene. Da qui discende il nostro impegno: cercare di interpretare la nostra società sapendo che non questa o quella tendenza politica, non il leader del momento, sono interpreti assoluti del nostro stare al mondo, ma la fede che ci ha chiamati e a cui cerchiamo di rispondere. Come il 17 febbraio non festeggiamo la «nostra» libertà, ma i diritti civili di tutti, così di fronte a provvedimenti del genere cerchiamo di difendere la libertà degli italiani, che comprende il diritto a essere informati in modo pluralista.