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Un “kit per rivitalizzare le chiese”? Eccolo!

Nel 2017 la Chiesa presbiteriana degli Stati Uniti (PcUsa), tramite il suo ministero di Teologia, formazione ed evangelizzazione e la sua agenzia missionaria, avvia l’«Iniziativa di rivitalizzazione delle congregazioni», un progetto pilota per ridare vita a comunità spente e in declino. Analizzando attentamente la situazione, si decide di porsi le domande in modo autocritico e sincero, organizzando incontri di discussione per diversi mesi, anche a partire da articoli come questo.

Emergono alcune necessità, per esempio che i pastori di comunità vicine lavorino insieme e che le chiese si scambino visite reciproche per conoscersi meglio; è molto sentito il bisogno di coinvolgere di più i giovani, di aprirsi alla città uscendo dalle proprie mura. Elementi che non dovrebbero suonare nuovi alle chiese protestanti italiane…

L’aspetto interessante della Revitalization Initiative è di offrire alle chiese una sorta di «kit di primo soccorso», un manuale che analizza 7 indicatori di «vitalità» di una congregazione, o meglio sette polarità fra atteggiamenti opposti, con le indicazioni per pastori e comunità su come realizzare, nell’arco di due anni, un vero e proprio piano di rivitalizzazione. Segue poi un questionario dettagliato, con domande suddivise tra i sette ambiti di cui sopra. Si tratta ovviamente di indicazioni generali, trattandosi di una fase pilota, e ogni comunità deve adattarle al proprio contesto. Non è, avvertono gli estensori, una ricetta miracolosa che assicurerà la vitalità e la sostenibilità delle chiese, o che permetterà loro di «rimanere le stesse o ritornare ai bei giorni andati». Il cambiamento ci deve essere, e deve essere radicale.

Si tratta di una traccia, si legge nella pagina di presentazione del documento, «di uno strumento di supporto dei leader di chiesa per rafforzare le loro congregazioni e aiutarle a rinnovarsi, recuperare e vivere più pienamente il discepolato in Gesù Cristo». L’obiettivo infatti è di «trasformare le comunità e cambiare le vite dei loro membri» verso una più autentica pratica religiosa.

Quest’ultimo aspetto è proprio uno dei punti chiave del kit, come emerge dai nodi critici, che possiamo sintetizzare così:

1) Formazione continua del proprio essere cristiani vs «pietà compiacente, che si limita a insegnare una buona morale»;

2) «Evangelizzazione autentica e intenzionale» vs atteggiamento ipocrita, o delega ad altri (un comitato) della trasmissione del messaggio evangelico;

3) Focalizzazione verso l’esterno vs ripiegamento sulla sopravvivenza della chiesa, dell’istituzione, con comunità chiuse ed escludenti;

4) Potenziamento della leadership delle figure «diaconali» (valorizzazione dei diversi ministeri all’interno della chiesa, che possono essere, venendo al contesto italiano, consigli di chiesa, catechisti e monitori…) vs leadership pastorale accentratrice e monopolizzatrice;

5) Culto autenticamente ispirato dallo Spirito vs rituale statico, separato da un significato autentico, oppure autogratificante, a “uso e consumo” personale (la chiesa “erogatrice di servizi” emersa da diversi dibattiti nelle nostre chiese, ad esempio nelle assemblee aperte organizzate nel primo distretto);

6) Cura delle relazioni; prendersi cura delle persone e dei loro bisogni, tenendo presente che la chiesa non è una qualunque associazione di volontariato; superare i pregiudizi verso la “chiesa” e la “religione”;

7) «Salute ecclesiastica» vs «ambiente tossico» (toxic environment), disfunzionalità, strutture obsolete.

Al di là delle differenze ovvie e profonde tra la PcUsa e le chiese protestanti italiane, nonché tra i due contesti socio-culturali, forse non sarebbe azzardato pensare a un adattamento di strumenti come questo per proseguire nel percorso di riflessione e ridefinizione avviato all’interno delle nostre chiese, come auspicato anche nel recente incontro degli organi esecutivi tenutosi alla fine di settembre (vedi l’articolo qui).

Foto: First Presbyterian Church (Raleigh, North Carolina).