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Le bambine salvate

Le bambine salvate sono quelle scampate all’infanticidio che, ancora in troppi casi in India, avviene a pochi giorni dalla nascita di una figlia femmina. Le circostanze economiche e culturali delle zone rurali del paese mantengono ancora un’aura di superstizione nei confronti delle nascite femminili; un’usanza, avversata dal governo ma che ancora sussiste, è quella di vedere le figlie allontanarsi da casa per il matrimonio e di dover pagare una dote alla famiglia del marito. L’organizzazione internazionale Terre des Hommes circa venti anni fa ha lanciato un progetto per contrastare questo fenomeno e dal 1998 le bambine salvate sono 1558. Alcune di loro compaiono negli scatti di Stefano Stranges che accompagnano i testi scritti dalla giornalista Federica Tourn e che sono in mostra presso la Galleria Febo e Dafne di Torino.

Come è iniziato questo viaggio?
«Sono stato selezionato per un progetto sul tema dei diritti umani e, insieme alla ong Terre des Hommes Italia, siamo partiti per documentare le attività dell’associazione nel sud dell’India, nel Tamil Nadu. In particolare abbiamo seguito le attività in alcuni villaggi per combattere l’infanticidio, problema che ora risulta essere per il 90% risolto, almeno in apparenza, grazie al contributo di una persona in particolare, Chezhian Ramu, che ha fondato Terre des Hommes Core in quella zona, una costola di Terre des Hommes Italia. Quest’uomo, parallelamente, è riuscito ad avviare altre attività come quelle di sostegno ai bambini malati di aids, o alle bambine vittime di violenza. Nello specifico, le bambine salvate sono quelle che sono andato a conoscere nei villaggi. Alcune ora sono cresciute e hanno 18-20 anni. Da loro ho cercato di tirare fuori i loro sogni e aspettative attraverso le immagini e i testi che si possono leggere affiancati alle foto.
Si tratta di una serie di immagini positive, risvolto di qualcosa di estremamente negativo. Un cambiamento dovuto al lavoro di Chezhian Ramu, che ho avuto modo di conoscere, che è riuscito a cambiare un po’ la mentalità di alcuni villaggi e zone rurali dell’India dove le bambine, le terze in particolare, venivano sacrificate per questioni sia economiche che di superstizione».

In che modo hai deciso di ritrarre questa realtà?
«Sono partito pensando di utilizzare il colore, in particolare perché in India è un elemento distintivo e poi volendo sottolineare il risvolto positivo della storia. Per me era importante che si vedessero i colori di queste case, di queste mura, che a volte, le figlie, crescendo, hanno trasformato in lavagne per studiare o per disegnare; era come vedere una traccia del vissuto di queste bambine che sono state salvate grazie all’intervento e alla pressione di Chezhian Ramu, che è andato di famiglia in famiglia per cercare di convincere le mamme e i papà a non uccidere le loro figlie. Può sembrare surreale, ma fino al 2008 avveniva proprio così. Nella serie di foto che ho fatto, le cinque storie che ho selezionato includono una delle ultime e una delle prime bambine del progetto che si chiama Poonthaleer, “sbocciare”. È bello ritrovare in queste immagini il rapporto con la mamma, con i fratelli e la quotidianità che stanno vivendo: l’istruzione e i sogni che si realizzano per alcune di loro. Ho cercato di fare una sintesi che potesse rappresentare questo percorso visivo ed emozionale».