4641953520_868787607b_z

Iraq, passaggi di consegne

Da alcuni anni, raccontare il conflitto siriano e iracheno significa anche, se non soprattutto, inseguire: mentre da un lato si chiude un fronte, quello di Raqqa, già “capitale” del Daesh e appena passata sotto il controllo delle Sdf, nel Kurdistan iracheno potrebbe essersene aperto un altro.
A partire dalla notte tra domenica 15 e lunedì 16 ottobre, infatti, l’esercito di Baghdad ha cominciato un’avanzata che l’ha portato a riprendere il controllo delle aree di confine con l’autonomia curda.
Dopo aver preso il controllo di Kirkuk all’inizio della settimana, nella giornata di mercoledì 18 ottobre le truppe dell’esercito federale iracheno, insieme alle milizie sciite sostenute dall’Iran, hanno raggiunto anche la diga di Mosul. I peshmerga curdi, che avevano costituito un cordone di sicurezza attorno a questa struttura quando la città occupata dal Daesh era sotto assedio della città lo scorso anno, hanno lasciato le loro postazioni senza combattere. Un passaggio di consegne pacifico o quasi, quindi, che segna l’inizio di una nuova stagione di alleanze e rivalità in un Paese che dal 2003 vive in uno stato di conflitto permanente. La questione riguarda anche il nostro Paese: presso la diga di Mosul, infatti, lavorano anche 500 soldati italiani a protezione dei lavoratori della ditta italiana Trevi, che lavora al consolidamento della barriera.

L’avanzata dell’esercito iracheno è a suo modo l’ennesima svolta negli equilibri stabiliti negli ultimi vent’anni. «Dall’inizio degli anni Novanta – racconta Martina Pignatti Morano, presidente di Un Ponte Per…, associazione di volontariato attiva da circa 25 anni in Medio Oriente – si è definita una certa autonomia delle aree curde nelle province di Dahuk, Erbil e al-Sulaymaniyya, sotto il controllo del governo regionale guidato dal Partito Democratico del Kurdistan. Accanto a queste ci sono delle vaste aree contese, sia al confine tra il Kurdistan e il governatorato di Ninive, che è quello di Mosul, dove si trovano le enclave delle minoranze cristiane e yazide, sia invece verso sud, nell’area che confina con Kirkuk. Proprio nel 2014, mentre il Daesh avanzava, i peshmerga avevano difeso Kirkuk e ne avevano ripreso il controllo: per questo fino a qualche giorno fa il governatore di Kirkuk era un curdo filo-Barzani, affiliato al presidente della regione curda».

Ma perché si è arrivati a questo punto? Come per le recenti cronache catalane, anche qui bisogna tornare a un referendum: è quello del 25 settembre, con cui il Kurdistan ha votato sulla propria indipendenza dall’Iraq, un risultato che non è stato riconosciuto dal governo di Baghdad. «Il giorno dopo quel referendum – ricorda Martina Pignatti Morano – la leadership curda di Barzani ha detto a Baghdad di voler avviare un dialogo a partire dai risultati di quel referendum, ma il governo di al-Abadi ha risposto negativamente, considerando il voto anticostituzionale». Basandosi su un’affluenza superiore al 72% e su un consenso tra i votanti pari al 93%, Barzani sperava in un maggiore margine d’azione, prontamente smentito da Baghdad. «Per rappresaglia – continua – il governo iracheno, in coordinamento con i governi iraniano e turco, ha avviato una serie di misure volte a riprendere il controllo sia dei confini e degli aeroporti della regione curda sia delle aree contese, con misure che sono andate dalla chiusura degli aeroporti del Kurdistan ai voli internazionali al blocco del trasferimento di valute dalle banche di Baghdad alle banche pubbliche che stavano nel Kurdistan iracheno. Anche i nostri cooperanti, banalmente, non potevano più uscire dal Kurdistan con i voli internazionali direttamente».

L’azione militare, anche se compiuta con scontri molto limitati, rappresenta l’ultima decisione presa dal governo iracheno, una scelta che va letta anche nell’ottica di acquisire il controllo sui pozzi petroliferi della regione: il Kurdistan e l’Iraq, infatti, si contendono una produzione di 250.000 barili al giorno che tra il 2008 e il 2014 è stata sempre più gestita dai curdi, per i quali rappresenta circa il 40% delle esportazioni petrolifere. Certo, la questione petrolifera non è la sola e non può spiegare completamente le resistenze dei vicini del Kurdistan a riconoscerne l’indipendenza. Da quando gli accordi di Sykes-Picot del 16 maggio 1916 suddivisero la regione senza tenere conto della composizione etnica, questo è forse il periodo in cui i curdi sono più vicini all’indipendenza. Con la guerra in Siria e Iraq, infatti, i curdi hanno aumentato la loro autonomia costituendo forme di autogoverno sempre più separate dagli Stati a cui dovrebbero appartenere, nel frattempo destabilizzati o sul punto di essere dissolti. Grazie anche alla guerra combattuta contro il Daesh, le varie autorità curde pensavano di essersi conquistate sul campo l’indipendenza, eppure nessuno degli Stati in cui sono dispersi sembra volerne parlare. Qui, ancora una volta, territori e risorse sembrano essere la chiave.

Tuttavia, la retorica dei curdi buoni e delle potenze straniere cattive, a volte sposata in modo acritico, finisce per mascherare alcune difficoltà: se da un lato uno dei problemi per Barzani è che il suo governo regionale ha perso il sostegno del suo principale alleato, la Turchia, Martina Pignatti Morano spiega che «la leadership curda è divisa al proprio interno, quindi le fazioni di Talabani, del Puk (Unione Patriottica del Kurdistan), sono più dialoganti con il governo iracheno, con l’Iran, per cui in questo momento la via d’uscita che si sta determinando è semplicemente risultato di questi equilibri di forze, di potere. Certo è che le ragioni per cui quel referendum è stato comunque realizzato, ovvero lo squilibrio di potere che c’era, la mancanza di coordinamento tra Kurdistan e resto dell’Iraq, indeterminatezza sulle aree contese, la gestione delle royalties del petrolio, rimangono dei punti su cui delle negoziazioni devono essere per forza avviate. Una soluzione potrà essere messa in campo solo se ci sarà un reale processo di concertazione politica».