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Il rischio di una Realpolitik mediterranea

Non sappiamo se siamo di fronte a una svolta nelle migrazioni mediterranee ma negli ultimi mesi lo scenario è notevolmente cambiato. È nell’estate, infatti, che si sono viste le conseguenze dell’accordo che il ministero dell’Interno italiano ha stabilito con il debole governo libico guidato da Serraj. L’intenzione è chiara: sostenere un’autorità che si impegni a fermare i flussi migratori là dove si concentrano, prima cioè che profughi e migranti si imbarchino verso l’Europa utilizzando i canali gestiti dai trafficanti e dalle centrali criminali che controllano questo lucroso affare.

Lo scontro politico sul ruolo delle ong che sin qui hanno svolto un ruolo riconosciuto e apprezzato nelle azioni di ricerca e soccorso – sempre coordinate dalla Guardia costiera – si colloca in questo nuovo scenario in cui il baricentro della strategia italiana si sposta dal soccorso al contrasto, dall’accoglienza al contenimento. Una delle ragioni che può avere suggerito questa svolta al Governo – o almeno una buona parte dei ministri che lo compongono, dato che il ministro Del Rio e il viceministro Giro hanno apertamente espresso le loro riserve – è il silenzio infastidito dell’Europa che, pur concedendo qualche inutile riconoscimento onorifico allo sforzo italiano in materia di accoglienza, nulla ha fatto o proposto per condividere l’onere che ne derivava. E l’Europa taceva inoperosa proprio mentre si rafforzava una «catena migratoria» che sfrutta la disperazione e l’insicurezza delle centinaia di migliaia di profughi generati da guerre come accade in Siria e Iraq, conflitti locali come in Nigeria o in Mali, tracollo degli stati come in Somalia, povertà estreme come in un’ampia regione che va dall’area subsahariana al Corno d’Africa.

Ma se questo era e rimane il problema, la soluzione adottata non lo risolve in alcun modo. L’azione umanitaria non è sottratta alla legge e quindi anche le ong devono attenersi alle norme di contrasto all’odioso crimine dello sfruttamento dei migranti. Ma, ribadita questa ovvietà, è evidente che nel corso dell’estate sono state oggetto di una vera e propria campagna di delegittimazione talmente violenta da indurle a sospendere le attività. La logica ci fa prevedere che meno soccorsi in mare produrranno più morti di immigrazione irregolare. Vedremo.

C’è però un’altra questione a nostro avviso anche più importante e grave della possibile uscita di scena delle ong dalle azioni di ricerca e soccorso in mare: il fatto che si punti ad affidare a Tripoli il destino dei migranti in fuga verso l’Europa. Il viceministro Giro ha parlato di «inferno libico»; alcuni reportage – esemplare quello di Domenico Quirico su La Stampa del 12 agosto – confermano questa interpretazione; le testimonianze dei (pochi) migranti arrivati in queste settimane a Lampedusa e raccolte dagli operatori di Mediterranean Hope sono allarmanti; le stesse Nazioni Unite sono reticenti ad aprire campi in quell’«inferno».

È vero: le migrazioni non possono essere l’unica soluzione al collasso economico e geopolitico di un’ampia area nordafricana e mediorientale. Ma – l’esperienza storica delle migrazioni lo insegna – sono una valvola importante e necessaria per lo sviluppo. Ma chi ne parla? Dov’è il tanto citato quanto fumoso piano Marshall per l’Africa? E poi c’è l’etica. Non è tempo di sognatori ma – e pensiamo anche al caso Regeni – una Realpolitik che rinunci ai diritti umani non è solo eticamente povera. È semplicemente sbagliata.

Immagine: By Ggia – Own work, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=45246844