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Regno Unito al voto, tra stabilità e paura

Al termine di una campagna elettorale durata meno di due mesi, oggi nel Regno Unito si vota per rinnovare i 650 membri della House of Commons, la Camera dei comuni, l’unica elettiva nel sistema bicamerale britannico.

La prima ministra del Regno Unito, Theresa May, che aveva preso il posto del conservatore David Cameron dopo che, il 24 giugno 2016, i cittadini britannici avevano votato in favore dell’uscita dall’Unione europea, aveva indetto elezioni anticipate verso la metà di aprile, portando il Paese verso una “snap election”. Lo scopo dichiarato era quello di legittimare la propria leadership e rafforzare la maggioranza Tory in Parlamento.

Tuttavia, mentre un mese fa i sondaggi, per quanto possano valere, davano i conservatori in vantaggio di almeno 20 punti percentuali, negli ultimi giorni si è arrivati a parlare di un “testa a testa”, di un distacco sempre più ridotto e di un esito difficile da prevedere.

La campagna elettorale, insomma, è stata piuttosto breve, ma molto più movimentata di quanto ci si potesse aspettare, e lo si può vedere compiendo un breve passo indietro. Per esempio, alla fine del mese di maggio una lettera firmata dall’arcivescovo di Canterbury, Justin Welby, e da quello di York, John Sentamu, esponenti di spicco della Church of England, faceva appello al fatto che nel momento del voto venissero «messi da parte apatia e cinismo», mettendo invece al centro della propria scelta «i valori britannici di coesione, coraggio e stabilità».

La lettera parlava anche di «preoccupazioni per i deboli, i poveri e i marginalizzati» e chiedeva «un approccio radicale per l’educazione, la sanità e un’economia equa», parole che qualcuno aveva interpretato come un appoggio alle posizioni portate avanti dal candidato laburista, Jeremy Corbyn, che aveva cominciato la propria campagna con una chiara impronta socialista. Per contro, il riferimento alla stabilità come a un valore chiave della società britannica era stato letto da molti come un implicito endorsement a Theresa May e alle parole chiave della sua campagna, Strong and stable, “[una guida] forte e stabile”.

Ecco, anche se la lettera è stata scritta meno di un mese fa, questi temi e queste preoccupazioni sembrano appartenere a una campagna elettorale lontanissima nel tempo, a un Paese molto diverso da quello che oggi va al voto. La campagna elettorale era cominciata parlando di Brexit ed equità sociale, ma ha finito per confrontarsi sul tema della sicurezza. Leonardo Clausi, giornalista freelance con base a Londra, spiega che «è evidente che questa raffica di terribili eventi abbia scosso alle fondamenta quello che altrimenti è forse il Paese più stabile di tutto il cosiddetto Occidente, quello con le tradizioni più radicate, con la continuità più indisturbata, sia storicamente che culturalmente».

È cambiato proprio il clima in cui si svolge il voto di oggi?

«Senz’altro c’è lo choc della violenza subita. Si sta insinuando purtroppo questo senso di incombente pericolo, nonostante questo sia un luogo abituato a pressioni di questo tipo, basta citare la minaccia del terrorismo repubblicano irlandese, che è stata presente per anni. I problemi di sicurezza sono assurti alla massima importanza nelle ultime ore di campagna elettorale. Va anche sottolineato quanto straordinaria sia in sé questa campagna elettorale, se non altro per la notevole rimonta compiuta dal partito laburista, che era addirittura dato per disfatto un mese fa. Certo, è abbastanza difficile prefigurarsi un Corbyn primo ministro, ma non è più così surreale come un mese fa».

Questa trasformazione può aver pesato più sui Tories che sui laburisti?

«Sì, anche perché c’è da tenere conto di un fatto: le campagne elettorali del partito conservatore hanno una loro conformazione ben precisa, sono tutte imperniate sul senso di forza, di sicurezza, di dominio delle circostanze che fa capo alla figura del primo ministro, sono rivolte a quella che un tempo si chiamava “maggioranza silenziosa”, un elettorato di matrice e posizionamento borghese conservatore, ostile a politiche che minino e che cambino gli equilibri socioeconomici esistenti. Il problema però è che in questo caso c’è stato un difetto alla base di tutta la campagna conservatrice: la premier Theresa May. Lei è un’efficiente e scrupolosa funzionaria, ma non è la statista che tutti avrebbero voluto, e ad aggravare questa situazione c’è la sua totale incapacità di raggiungere umanamente ed emotivamente, l’elettorato. In questo senso i laburisti si trovano esattamente nella situazione opposta: non hanno credibilità, perché Corbyn è visto come un relitto degli anni Settanta ed è stato fatto oggetto di attacchi personali da parte sia della campagna avversaria che del suo stesso partito, però dalla sua ha l’esperienza di 40 anni di militanza sul territorio. Questo ha fatto sì che nel momento in cui, per una questione di imparzialità giuridica che bisogna osservare nella campagna elettorale, Corbyn si è visto aprire l’accesso ai media nazionali, la positività del suo messaggio e soprattutto la sua capacità di parlare alle persone ha pesato. Ecco, anche a questo si deve la rimonta abbastanza straordinaria del Labour».

L’ultimo attentato a Londra ha visto, tra le altre conseguenze, un raffreddamento dei rapporti tra May e Trump e una generale difesa della figura del sindaco di Londra, Sadiq Khan, attaccato dal presidente statunitense. Questo potrebbe favorire indirettamente il Labour?

«Difficile a dirsi: da un lato Londra è la capitale britannica, ma dall’altro in parte non lo è più. Londra è quasi un’entità sovrastatale che fa capo a un clima di circolazione di idee, di capitali e di persone diverso dal resto del Paese: non a caso Sadiq Khan, musulmano e di origini pakistane, ne è diventato sindaco. L’anno scorso a Londra il Remain, cioè la posizione di coloro che volevano restare nell’Ue, si era imposta, e questa città è il fulcro di quella cosiddetta élite neoliberale cosmopolita che in un certo senso ha egemonizzato le politiche di tutti i partiti socialdemocratici veri o presunti del secondo dopoguerra. Qui non si vedono l’isolamento, il sovranismo e l’identitarismo in una luce positiva.

Le ingerenze di Trump invece sono indice di uno scostamento ormai assodato dalla tradizionale impostazione della diplomazia fra stati: il presidente statunitense fa politica estera con 140 caratteri, quindi stiamo capendo che tipo di elemento perturbatore ci sia. Peraltro questo è anche indice di un sistema che non tiene più, quello geopolitico uscito dalla fine della seconda Guerra Mondiale. Diciamo che Khan ha avuto la possibilità di fare una bella figura dal punto di vista politico nel non raccogliere queste provocazioni del presidente americano, ma non so se questo abbia spostato qualche voto».

Immagine: Overseas Development Institute via Flickr