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«Non un’opera buona»

La figura di Lutero, monaco ribelle, uomo rivoluzionario, tormentato e appassionato, ha ispirato scrittori, registi e drammaturghi, che nel tempo hanno dato la loro personale lettura di un personaggio complesso, evidenziandone alcune caratteristiche a scapito di altre. Normale, oltre al fatto che l’arte, a prescindere, è un processo di trasfigurazione della realtà. Quando poi tra la realtà e l’opera d’arte passano 500 anni, scatta il mito, la leggenda.

La compagnia Il Servo Muto, nata a Brescia nel 2013 dall’incontro di tre giovani attori e operatori teatrali (Pavel Zelinskiy, Michele Segreto e Diego Veneziano) che decidono di lavorare insieme per produrre spettacoli dal vivo in cui mettere in gioco le rispettive competenze (e nel tempo si è arricchita di altre collaborazioni), in questo cinquecentenario denso di eventi ha creato uno spettacolo dal titolo stuzzicante, Non un’opera buona.

Che cosa significa? Lo abbiamo chiesto a Michele Segreto, ventottenne bresciano, selezionato da Antonio Latella tra i 30 migliori registi italiani under30 per la Biennale Teatro, autore dello spettacolo, che ha vinto la quinta edizione dei Teatri del sacro.

Quest’ultimi è un bando biennale che finanzia spettacoli che affrontano in qualche modo il tema del “sacro”, nella sua concezione più ampia. Lo scorso anno, spiega Segreto, Il servo muto ha deciso di partecipare con un suo progetto, è stato selezionato insieme a una settantina di altri, quindi ha presentato un estratto dello spettacolo che in venti minuti raccontava il Lutero «buono» e il Lutero «cattivo». La proposta è piaciuta, e la compagnia è stata scelta tra le finanziate, coprodotte e presentate alla manifestazione, che quest’anno si tiene ad Ascoli (le precedenti edizioni si erano tenute a Lucca).

 

Com’è nato lo spettacolo e qual è il significato del titolo?

«Lo spettacolo nasce dalla nostra ultima collaborazione, realizzata con un gruppo di attori che abbiamo selezionato per il progetto, e con Mario Scandale che firma la regia, perché riteniamo importante avere al nostro interno la possibilità di affidarci a visioni artistiche diverse da quelle dei fondatori della compagnia: un bel modo per rimanere artisticamente attivi.

Il titolo fa riferimento diretto alla dottrina di Martin Lutero, secondo cui non esistono opere buone nel momento in cui l’uomo non è buono: non sono le opere che portano l’uomo alla salvazione, e come viene detto anche nello spettacolo, “In questa vita non saremo mai così puri da compiere un’opera buona senza compiervi insieme anche un peccato”».

 

Molte, e diversissime, sono le rappresentazioni del riformatore. Quale Lutero avete deciso di raccontare nel vostro spettacolo?

«Il nostro interesse maggiore era tratteggiarne la figura umana, e per fare questo ci siamo rivolti direttamente alle fonti, confrontandoci con il fatto che esse sono piuttosto discordanti, e cambiano in modo significativo a seconda che siano cattoliche o protestanti. Gli uni hanno dato di Lutero un’immagine truce, quasi demoniaca, per contro gli altri hanno avuto la tendenza quasi a “santificarlo”, già quando era ancora in vita. Quello che ci interessava era capire come possono convivere questi due aspetti nello stesso uomo».

 

Siete riusciti a riunire queste due immagini nello stesso spettacolo?

«Ciò che ci ha permesso di farlo è una struttura drammaturgica che abbiamo inventato, ipotizzando che dopo la sua morte Filippo Melantone, il “braccio destro” di Lutero, ma con idee più “diplomatiche”, abbia un incontro con il papa, in cui si cerca una via per la pace rispetto a quanto sta succedendo in Germania. Abbiamo immaginato che in questa occasione Melantone racconti una certa immagine di Lutero, e il papa ne dia un ritratto totalmente opposto, arrivando alla conclusione che forse Lutero era entrambe le cose.

Lo spettacolo ripercorre quindi la vita di Lutero utilizzando questo escamotage che ci permette di fare dei salti cronologici rilevanti, anche se la cronologia viene esplicitata chiarendo le date all’inizio di ogni scena, passando tra il prima e il dopo la dieta di Worms, il momento in cui Lutero decide di non ritrattare e quindi di non essere annoverato fra le molteplici eresie dell’epoca ma di fondare una chiesa propria. Teniamo Worms per ultima perché per noi è il punto di svolta e il trait d’union tra le due diverse facce di Lutero».

 

Che cosa vi ha colpito di più nella figura di Lutero e nella sua vicenda?

«L’aspetto che ci ha colpito di più è proprio l’umanità di Lutero, il suo essere pieno di difetti, soffriva per come vedeva ridotta la chiesa, era spinto da motivazioni assolutamente pure di rinnovamento della chiesa, auspicando un ritorno alla chiesa delle origini, ma al tempo stesso era un uomo iracondo, che eccedeva nella polemica, nel bere e nel mangiare. Elementi difficili da conciliare con un personaggio che sarebbe facile idealizzare, ma tutto questo mostra tutto un sottotesto di umanità che rende interessante lavorare su questo personaggio, anche se dall’altro lato  mette in difficoltà nel momento in cui le due parti non sono dosate in maniera adeguata».

 

Lo spettacolo debutterà in prima nazionale assoluta venerdì 9 giugno alle 22,30 all’ex chiesa di sant’Andrea ad Ascoli Piceno.

Il Festival si tiene quest’anno dal 4 all’11 giugno con 19 spettacoli gratuiti in prima nazionale assoluta: la scelta di Ascoli Piceno non è casuale, ma vuole essere un gesto di solidarietà verso il territorio duramente colpito dal terremoto, oltre alla scelta di una città d’arte e di cultura.