fotogramma

L’età del carbone non finisce mai

Se il summit del G7 di Taormina ha visto gli Stati raggiungere un’intesa su temi quali la lotta al terrorismo, la regolamentazione dell’immigrazione e soprattutto il commercio e gli investimenti, non si può dire lo stesso per il tema fondamentale del clima. L’impegno ad attuare rapidamente l’accordo di Parigi, come già deciso al vertice di Ise-Shima dello scorso anno, è stato preso solo da sei dei sette Stati, con il cambio di rotta del presidente Usa, Donald Trump.

Il raggiungimento degli obiettivi internazionali per il rispetto dell’ambiente e l’impegno dei leader spesso si scontrano con la realtà degli Stati nazionali e delle imprese coinvolte nell’inquinamento. In Italia, per esempio il 15 % dell’energia proviene dall’utilizzo del carbone, combustibile tutt’altro che superato. Pochi giorni fa l’associazione Re:Common ha presentato un video che tratta proprio dello sfruttamento del carbone nel nostro paese. «Il carbone danneggia pesantemente il nostro clima, ma ha anche effetti sulla salute della cittadinanza – dice Antonio Tricarico, analista dell’associazione – così come sull’ambiente locale, sulle acque e così via. Sono situazioni gravi su cui dovrebbe intervenire la politica, permettendoci di voltare pagina».

L’Italia è ancora coinvolta nell’industria del carbone: quanto è lontano un cambiamento?

«Ci troviamo di fronte a una situazione molto particolare, da un verso a partire dal 2015 con l’accordo sul clima di Parigi (l’allora primo ministro Renzi definì il carbone il nemico pubblico) si sono presi degli impegni a livello molto generale, sostenendo sostanzialmente che bisogna smetterla con il carbone. I dati dicono che al massimo entro il 2030 bisognerebbe chiudere tutte le centrali in Europa e ridurre significativamente quelle presenti in Asia o nei paesi in via di sviluppo. In pratica però non ci sono ancora impegni precisi e vincolanti per una chiusura delle centrali. Ricordo che in Italia più del 15% della produzione elettrica viene da fonti di carbone, abbiamo due impianti tra i più grandi d’Europa, quello di Brindisi sud e di Torrevaldaliga nord. Impianti su cui, per esempio, Enel non si esprime dando una data di chiusura. Abbiamo situazioni molto antiche, come quella di Monfalcone, con un impianto vecchissimo e con una licenza per continuare ad operare fino al 2025. Anche A2A continua ad avere investimenti di carbone, per esempio nei Balcani. Ad oggi sta considerando un’uscita da questo investimento ma se non trova degli acquirenti soddisfacenti, ciò non avverrà. Parliamo di società come Enel che ha il 30% di partecipazione dello Stato italiano e A2A che ha una partecipazione del comuni di Milano e di Brescia. C’è un intervento pubblico, che da un lato dice di finirla con il carbone, dall’altra non dà delle date precise».

Per arrivare al 2030 senza carbone non occorre iniziare? Anche per riorganizzare l’ambito occupazionale che coinvolge il carbone, che tocca migliaia di lavoratori.

«Assolutamente, e soprattutto smettere di fare investimenti. Anche nell’assemblea di Enel a cui abbiamo partecipato, la via era doppia: la volontà di uscire dal carbone entro 10-15 anni, e dall’altra la volontà di continuare a investire in Brindisi sud per renderla più efficiente. Per quanto riguarda il lavoro, si parla in termini generali di transizione, poi in pratica non si sa chi dovrebbero essere i soggetti che se ne occuperanno: i sindacati che difendono i posti di lavoro non mettono sul tavolo nulla, dall’altra parte c’è un governo che fa lo stesso. Ci sono due questioni fondamentali: la prima è che c’è bisogno di una bonifica seria di questi territori, martoriati e inquinati, che però costa; se non ci sono dei paletti vincolanti non se ne esce. In secondo luogo bisogna pianificare uno sviluppo territoriale differente, e ci può essere una questione energetica che però dev’essere ben diversa, decentralizzata, rinnovabile e deve avere un forte coinvolgimento dei cittadini creando anche una leva di riscatto. Il territorio vuole riqualificare le aree e ripensare lo sviluppo, ma in assenza di intervento della politica, anche locale, continuiamo a chiederci chi pagherà tutto questo. Fissare una data significa iniziare ad avviare i processi di pianificazione, altrimenti non ci saranno risultati».

G7 di Taormina sul tema climatico ha avuto un risultato deludente per il ruolo degli Usa: ma davvero gli Stati possono continuare a pensarsi isolati dal resto del mondo?

«I cambiamenti climatici sono un problema globale, ma allo stesso tempo i lunghissimi negoziati, spesso fallimentari, ci dimostrano che neanche un accordo internazionale vincolante viene tradotto in un’azione da parte degli Stati. Essi devono agire per difendere l’interesse pubblico e gli interessi dei cittadini nei confronti di una minaccia chiara, palese, non negabile. Il cambiamento avviene negli Stati, ma ancora prima a livello locale, bisogna interamente trasformare i nostri sistemi energetici e di stile di vita. Sul G7 mi sembra un fallimento, anche se mi sembra che l’amministrazione americana si ritirerà sempre più da questi accordi sul clima. Credo che il G7 abbia fatto il suo tempo, oggi non riesce neanche più a dialogare al suo interno, vanificando l’utilità dell’incontro. Il G20 che ci sarà in Germania, a luglio, sarà molto più rilevante, anche se è un foro diverso: ad oggi non ha prodotto molto, ma al tavolo si siedono economie importanti, a partire della Cina, e si spera che gli Stati possano negoziare davvero. In generale, sul clima penso che occorra agire su tutti i livelli, dai cittadini al settore privato, ai governi, altrimenti non ci si muoverà nella direzione giusta».

Immagine: Fotogramma del video di Re:Common