se_il_pacifico_scende_in_guerra

Se il Pacifico scende in «guerra»

Per le Isole del Pacifico il cambiamento climatico è molto più che una preoccupazione politica: sta portando all’estinzione di popoli, terre e stili di vita e rappresenta uno degli esempi più significativi di cosa sia l’ingiustizia ambientale nel mondo.

La regione del Pacifico è estremamente vulnerabile al cambiamento climatico, nonostante contribuisca anch’essa, seppur in minima parte, alle emissioni globali di gas a effetto serra.

«Gli effetti del cambiamento climatico sono diventati una questione urgente per la vita quotidiana degli isolani del Pacifico», ha affermato il reverendo Tafue Lusama, segretario generale della Chiesa cristiana di Tuvalu, situata nell’Oceano Pacifico a metà strada tra le Hawai e l’Australia.

«Abbiamo purtroppo sperimentando una maggiore intensità di cicloni tropicali, venti di tempesta; danni come lo sbiancamento dei coralli, l’intrusione di acqua salata nelle acque dolci, l’erosione costiera, il cambiamento d’intensità e di regolarità delle piogge; ed ancora la sommersione di isole e l’acidificazione delle acque del mare», ha proseguito Lusama: «questo clima potrebbe portare il Pacifico sull’orlo della completa devastazione. La nostra sopravvivenza è garantita soltanto dal mondo che ci circonda».

Preoccupazioni sono state espresse anche dal gruppo di lavoro sui cambiamenti climatici del Consiglio ecumenico delle chiese (Cec) che sta preparando il suo piano di azione in vista della 23a Conferenza delle parti (Cop23) delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici.

Il gruppo di lavoro si è incontrato dall’ 8 al 10 maggio a Wuppertal, in Germania, e ha deciso di concentrare la propria attenzione sulla regione del Pacifico.

«Compito fondamentale è garantire che i vari meccanismi contenuti nell’accordo di Parigi: «finanza climatica», «equità sociale» e «salvaguardia dell’ecosistema» possano aiutare le isole del Pacifico a costruire società resilienti e garantire ecosistemi compatibili – ha dichiarato Athena Peralta, dirigente del programma del Cec per la giustizia ecologica –. Solo potenziando i contributi finanziari e trasferendo tecnologie avanzate e compatibili in quelle aree si potrà intervenire seriamente; il prezzo di tale sforzo dovrà essere a carico di quei segmenti ricchi e industrializzati che sono, prevalentemente, i responsabili del cambiamento climatico. Solo così potranno cominciare a ricompensare il torto fatto all’ambiente e alle persone; a loro spetta per primi ripianare il debito ecologico enorme che è stato prodotto: soprattutto ricompensando i popoli del Pacifico».

Le comunità di fede possono contribuire a sensibilizzare anche su quelle «distruzioni irreversibili che sono state causate agli indigeni nelle loro terre. La perdita o la distruzione della propria terra natia, ad esempio, non potrà mai essere né misurabile, né quantificabile economicamente», ha dichiarato Henrik Grape, il coordinatore del gruppo di lavoro. Composto da teologi, esperti e attivisti di tutto il mondo, il gruppo del Cec propone molte sfide all’azione per il clima.

L’accordo di Parigi, entrato in vigore nel novembre dello scorso anno, mira a mantenere il riscaldamento globale al di sotto dei 2 gradi Celsius rispetto ai livelli preindustriali. Dopo la conferenza Cop22, tenutasi a Marrakech in Marocco, la Cop23 dovrebbe – così spera il Cec – aggiungere ulteriori indirizzi pratici per favorire l’attuazione dell’accordo sul clima di Parigi.

Grazie ad un programma organizzato dalla Missione evangelica unita e il gruppo di lavoro del Cec sul cambiamento climatico sono già state attivate una serie iniziative di chiese locali e di governi di Wuppertal, tese a contribuire all’abbassamento di emissioni di gas ad effetto serra, nonché piani di mobilitazione nate da altre fedi e gruppi della società civile.

L’obiettivo è arrivare coesi alla Cop23, che si terrà a Bonn (Germania) dal 6 al 17 novembre.