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Migranti in croce nella settimana della Pasqua

L’area esterna della cattedrale di Bendigo, cittadina nella provincia australiana di Victoria, ospita da alcuni giorni tre crocifissi di grandezza naturale, con una particolarità che salta inevitabilmente all’occhio subito: al posto di Gesù Cristo ad essere inchiodati alla croce sono una serie di figure che rappresentano i migranti di tutto il mondo. Nella settimana della passione e della resurrezione il decano della cattedrale, John Roundhill afferma di «aver voluto sfidare le persone, i fedeli e i passanti, con un’immagine forte, che pone un parallelo fra gli eventi di 2000 anni fa e la situazione dei rifugiati nel mondo di oggi».

Le sculture sono state create dal pastore John Tansey della Uniting Church di Melbourne.

«Siamo lieti di ospitare l’installazione – prosegue il decano Roundhill -, in parte perché da anni tentiamo di tenere alta l’attenzione sul tema dei diritti dei rifugiati, e in parte perché la nostra stessa comunità è a sua volta composta da ex rifugiati o perlomeno da immigrati provenienti da altri continenti.

Le tre figure rappresentano un uomo, un bambino e una donna incinta. Il loro nome è Nauru, Manus Island e Christmas Island, i luoghi in cui sorgono i tre centri di detenzione off-shore dell’Australia per i richiedenti asilo.

E’ il caso di aprire una parentesi sulla gestione del tema migranti nel grande stato oceanico, non certo immune da tentativi di sbarchi di persone provenienti dal medio oriente, dall’Asia, dalle isole del Pacifico.

L’Australia, nazione egemone nell’area, ha aperto a migliaia di chilometri dalle proprie coste tre luoghi in cui concentrare i migranti intercettati. Christmas Island (l’isola di Natale), 1000 abitanti in tutto, appartiene giuridicamente all’Australia pur trovandosi a 1600 chilometri dalle sue coste; Nauru è un’isola e uno stato indipendente, il più piccolo paese non europeo in termini di superficie, con circa 10 mila abitanti, e da circa 15 anni ospita il contestatissimo campo di detenzione in cui vengono fatti confluire i disperati raccolti qua e là nelle immense acque del Pacifico, in cambio di circa 1 miliardo di dollari l’anno versati nelle asfittiche casse dell’isola direttamente dal governo australiano; il terzo centro, capace di accogliere anch’esso fino a 1000 persone, si trova invece sulla Manus Island, appartenente alla Papua Nuova Guinea, anch’essa beneficiaria di lauti finanziamenti del governo di Canberra pur di tenere immacolate le coste australiane.

Tre lager, denunciati negli anni più volte dalle Nazioni Unite, da Amnesty International e da numerose altre organizzazioni per i diritti umani, sia per le drammatiche condizioni di vita di chi vi risiede, fra violenze di ogni genere e privazioni di ogni sorta, sia per la sostanziale impossibilità per queste persone di raggiungere mai l’Australia. Afghani, iracheni, siriani, parcheggiati in atolli in mezzo all’oceano, a migliaia di chilometri dalla terraferma, con l’opzione di ritornare indietro o forse ottenere un visto ventennale per fermarsi a Nauru o nelle isole della Nuova Guinea. Una deportazione quotidiana, centellinata, inesorabile. Le polemiche che hanno travolto il governo australiano avrebbero come conseguenza la proclamata chiusura entro l’anno almeno del centro di Manus Island, considerato incostituzionale anche dalla Corte suprema di Papua Nuova Guinea. E i detenuti? Verranno inviati negli altri due centri o verrà chiesto loro di trasferirsi in Cambogia, nazione che ha stretto un accordo con il governo australiano: 55 milioni di dollari ricevuti in cambio di appena 5 persone che al momento hanno accettato di trasferirsi in Cambogia; di questi 4 sono tornati a gambe levate nei loro paesi d’origine, Iran e Myanmar, e solo uno si è fermato. Un fallimento totale. Eppure il ministro dell’immigrazione di Canberra Peter Dutton così come il primo ministro Malcolm Turnbull continuano ad affermare che nessun migrante giungerà in Australia. E in effetti quelli effettivamente sbarcati negli ultimi anni si contano letteralmente sulle dita di una mano. Le domande di asilo ricevono risposta, solitamente negativa, in circa 18 mesi, costringendo a vivere nel limbo migliaia di persone, parcheggiate o meglio dire deportate su isole remote. Hitler prima di abbracciare la soluzione finale aveva pensato al Madagascar come luogo in cui spedire gli ebrei di tutto il mondo. La storia è maestra di vita sempre. Anche negli esempi più nefasti.

Non mancano nella grande nazione australiana le voci di dissenso e un po’ ovunque nascono comitati impegnati a sensibilizzare i cittadini sul tema. In prima fila sono quasi sempre le chiese ad organizzare l’accoglienza dei pochi che riescono ad arrivare, e a tenere alta l’attenzione sul tema. Milioni di dollari spesi in accordi con altre nazioni (che ora dipendono da questi denari e quindi premono per non chiudere i centri) e in azioni di pattugliamento delle immense coste gridano vendetta.

Ecco il contesto in cui si inseriscono le tre statue. «Ci sono ancora molti bambini detenuti nei centri, anche se ora molto meno rispetto al passato – conclude il decano-. Questo è stato uno dei temi che ha spinto tutte le chiese a mobilitarsi. Prima di questi ultimi anni non ero mai sceso in strada per protestare in vita mia. Ma quando mi è stato chiesto un impegno in materia, ho pensato che se non l’avessi fatto almeno per i bambini, per chi o cosa mai avrei dovuto farlo». La cattedrale è presa di mira da gruppi che si oppongono alle politiche di accoglienza, sia con slogan apparsi in video creati da organizzazioni di estrema destra, sia con i reiterati furti degli striscioni inneggianti all’accoglienza. «Ma sono più le persone che ci dimostrano vicinanza». Segnale che spesso i cittadini non hanno i governanti che si meritano.