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«I migranti sono i desaparecidos del 2016»

Enrico Calamai ha lo sguardo sereno di chi sa di aver fatto le scelte giuste nella propria vita accettando di pagarne il prezzo. Il suo nome forse non è famoso come quello del tedesco Oskar Schindler, del rwandese Paul Rusesabagina o, per rimanere a italiani, di Giorgio Perlasca, eppure le sue azioni sono state grandi.

Quando nel 1976 un colpo di Stato portò i militari al potere in Argentina, Calamai era un giovane diplomatico del Consolato italiano a Buenos Aires. Quando si accorse che, in nome di un potere calato dall’alto, un’intera generazione sembrava destinata a scomparire, cancellata in silenzio con rapimenti, torture e uccisioni, decise di non rimanere a guardare. Il coraggio, insieme alla sua posizione diplomatica, gli consentì di salvare centinaia di oppositori politici del regime. Li nascose, fornì loro i documenti per l’espatrio e infine riuscì a farli scappare, mettendo a rischio la propria vita e sacrificando la propria carriera. Infatti, poco tempo dopo, nel maggio 1977, venne richiamato in Italia.

«Quando la gente ha cominciato a venire al Consolato di Buenos Aires per chiedere aiuto – racconta lo stesso Enrico Calamai – , io non potevo far finta di non sapere che se queste persone fossero state respinte avrebbero fatto una brutta fine. Sarebbero state rapite, torturate, molto probabilmente anche uccise».

Oggi, terminata la carriera diplomatica, Calamai si definisce un “libero cittadino”, e la sua attenzione si è rivolta a quelli che chiama “i nuovi desaparecidos”, i migranti che cercano una vita migliore in Europa affrontando a viso aperto il rischio di scomparire nel nulla tra le acque del deserto del Sahara o nelle acque del Mediterraneo.

Della sua storia si conoscono in parte le motivazioni, e lei spesso ha detto di aver agito come ha fatto perché, semplicemente, era la cosa giusta da fare, e che altri al suo posto avrebbero fatto lo stesso. Concretamente, però, com’è stato possibile salvare quelle persone?

«Poco dopo il golpe hanno cominciato a venire nel mio ufficio dei ragazzi che erano inseguiti dai militari e che sapevano, e anch’io sapevo, che se fossero stati catturati sarebbero stati torturati e uccisi. Essendo console a Buenos Aires, e quindi rappresentante del Governo italiano, ero responsabile presso il Consolato generale dei passaporti e dei rimpatri, e quindi avevo gli strumenti per fare in modo che questi ragazzi lasciassero immediatamente il Paese e si recassero in Italia».

Le azioni hanno delle conseguenze. Nel suo caso quali sono state per lei, per il suo lavoro e per i suoi rapporti?

«Sapevo di aver adottato un modo di agire che non era precisamente quello che da me si aspettava il ministero degli Esteri a Roma e che quindi avrei avuto delle conseguenze in termini di carriera, ma onestamente non mi sembravano gravi vista la situazione che avevo di fronte. Su questo non ho mai cambiato opinione. È chiaro che un governo vuole dei funzionari che traducano in pratica le istruzioni, anche quelle non esplicite, e visto che in quell’occasione mi rifiutai di farlo, avevo messo in conto di pagare delle conseguenze. Detto fra noi, però, non mi sembravano e non mi sembrano gravi».

Nel Paesi del Sudamerica la stagione delle dittature militari è chiusa, eppure continua a dividere. A quarant’anni di distanza dal golpe, in Argentina il processo di riconciliazione si è completato o è ancora in corso?

«Diciamo che è diventata una questione politica. Fino al fallimento dello Stato argentino del 2001 la realtà di quello che era accaduto, del trauma subito dalla società argentina in quegli anni, negli anni dei militari, era negato dall’opinione pubblica. Con il fallimento dello Stato si è capito che c’era un filo rosso che collegava la realtà economica precipitata vent’anni dopo e ciò che avevano fatto i militari. Per rendere possibile l’apertura violenta del Paese alla finanza internazionale e al neoliberismo della Scuola di Chicago si era deciso di eliminare una generazione, che avrebbe dovuto negli anni diventare classe dirigente. A posteriori si trattava di un progetto mostruoso di ingegneria demografica, che però finalmente è affiorato alla coscienza e all’opinione pubblica ed è arrivato ad una fase processuale difficile, complicata, con articolazioni un po’ in tutti gli ambienti ma che ha preso inizio col nuovo governo argentino dopo il 2001, con Nestor Kirchner. Adesso quel governo è stato sostituito da uno nuovamente di tipo neoliberista e non si sa quale sarà l’impostazione per affrontare questi problemi».

Avviciniamoci al nostro territorio: lei oggi, dopo aver concluso la sua carriera da diplomatico, si occupa da “libero cittadino” dei nuovi desaparecidos. Ecco, chi sono?

«Sono i desaparecidos dell’Europa affluente del secondo millennio. Sono coloro che l’Europa sacrifica e che non vuole che l’opinione pubblica sappia che sacrifica. Sono tutti coloro che per sfuggire a situazioni gravissime di crisi, guerre e dittature, oppure catastrofi ambientali, molto spesso provocate da noi occidentali. Queste persone si trovano a dover scegliere fra la fuga e la morte e cercano di arrivare al Mediterraneo e attraversarlo per venire in Europa e perdono la vita in questo tentativo. Perdono la vita nell’attraversare il deserto, nei Paesi di transito, nel Mediterraneo. Di loro non restano altro che delle cifre, 70 morti oggi, 800 domani, che non vengono negate dall’opinione pubblica ma che sembrano un fatto che non dipende da noi, mentre invece sono fatti conseguenze della politica di chiusura delle frontiere adottate dai nostri governi come deterrente».

La giornata di ieri, 3 ottobre, portava con sé due ricorrenze tragiche e diverse tra loro. Tre anni fa, infatti, la tragedia di Lampedusa, il naufragio che costò la vita a 368 persone e fece dire ai nostri politici «mai più morti in mare», senza metterlo poi in pratica. Otto mesi fa invece veniva ritrovato al Cairo, in Egitto, il corpo del ricercatore italiano Giulio Regeni. Partiamo da qui, questa vicenda le ha fatto tornare alla mente l’epoca della desaparición in Argentina?

«La tragedia di Giulio Regeni è la tragedia di un giovane italiano, intellettuale, impegnato socialmente, che crede di poter studiare una realtà in continuo movimento come quella egiziana e viene messo in mezzo come succedeva a tanti giovani in Argentina. In effetti sì, il modo di procedere di una dittatura come quella egiziana, in cui i servizi segreti e gli apparati dello Stato sono così forti, mi ricorda moltissimo quello che è successo in Argentina».

A proposito invece della ricorrenza di Lampedusa, dove dovremmo cercare le responsabilità?

«La tragedia di Lampedusa è una tragedia di carattere generale dell’indifferenza dei governi europei, dei governi della Nato e dell’Italia stessa».

A tre anni da questa strage, il 2016 è anche l’anno dei primi corridoi umanitari, con i quali si sono costruiti ponti mentre tutta l’Europa costruisce muri. Quello dei corridoi umanitari è un modello credibile, secondo lei?

«Ma certamente. Quella avviata dalla Tavola valdese e dalla Comunità di Sant’Egidio è un’esperienza estremamente importante che dimostra come sia fattibile salvare le persone e creare le condizioni perché la gente possa venire senza pericolo in Europa. Certo, è un’esperienza limitata, ma si spera che trovi eco nell’opinione pubblica, che serva a far reagire l’opinione pubblica mettendola di fronte alle proprie responsabilità, di fronte a ciò che accade da una parte, alla facilità con cui si possono far venire queste persone dall’altra».

L’associazione che avete creato si chiama Volontà e giustizia per i nuovi desaparecidos. Come si definiscono verità e giustizia in una dimensione come quella del dramma delle migrazioni forzate?

«Si deve parlare di verità e di giustizia perché si tende a credere che sia un fatto casuale, che sia un fatto che succede, che non si sa bene perché succeda, e invece la verità è che queste morti che continuano ad accadere un giorno dopo l’altro sono conseguenza diretta delle politiche di chiusura dei governi europei, che hanno stipulato accordi con Paesi non democratici dell’Africa e del Medio oriente per bloccare l’emigrazione, che controllano le frontiere, che non concedono visti umanitari come invece abbiamo visto che può essere fatto. Tutto ciò costringe la gente a trovare dei mezzi di fortuna, e questo molto spesso li porta alla morte. La verità è fare in modo che si sappia ciò che sta accadendo, la giustizia è far sì che le responsabilità politiche di quello che è a tutti gli effetti un crimine di lesa umanità vengano perseguite a livello di tribunale internazionale».

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