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L’ultimo giorno in cui l’America si sentì al sicuro

L’11 settembre 2001 la partenza dell’aereo United Airlines 93 era prevista alle 8,01. Decollò invece da Newark, New Jersey, con 42 minuti di ritardo e questo salvò il Campidoglio e molte vite umane. Gli attentatori, infatti, avrebbero voluto dirigerlo sul Capitol Hill a Washington, il cuore della democrazia americana. I passeggeri proprio grazie a quel ritardo furono informati di quello che era successo alle Torri Gemelle, si ribellarono e tentarono di riprendere il controllo. A quel punto i quattro terroristi lo fecero precipitare a Shanksville, Pennsylvania. L’ufficio del Consiglio delle chiese cristiane degli Usa (Ncccusa) si trova nel palazzetto della Chiesa metodista unita, a 30 metri dal Campidoglio.

Come il 95% degli americani, Jim Winkler, presidente e segretario generale del Ncccusa, ricorda dove si trovava e che cosa stava facendo in quel momento.

«Ero qui, nel mio ufficio, al piano di sopra [a quel tempo era responsabile della Commissione Giustizia della Chiesa metodista unita, ndr]. La segretaria entrò e mi disse che un aereo era caduto su una delle torri. Rimasi di sasso ma pensai che si trattasse di un incidente. Un aereo da turismo! Mi chiesi, come diavolo ha fatto a sbatterci contro? Pochi minuti dopo [17 minuti, ndr] la segretaria ritornò, bianca in volto, e mi disse che anche la torre sud era stata colpita. Quando fu chiaro che eravamo sotto attacco riunii tutti i dipendenti dell’ufficio per una preghiera e poi dissi: “se desiderate andare a casa, sentitevi liberi di farlo”. In pochi minuti l’ufficio era vuoto e mi resi conto che anche gli occupanti del parlamento stavano abbandonando Capitol Hill. Solo qualche giorno dopo abbiamo saputo che saremmo potuti essere nel numero delle vittime se quell’aereo non fosse stato fermato dai passeggeri».

In tutto il paese domenica scorsa, a quindici anni dall’attentato, ci sono state manifestazioni di cordoglio. Il presidente Obama ha tenuto un commosso discorso alla nazione, i candidati alla presidenza hanno assistito alla cerimonia a Ground Zero. Voi, come Consiglio ecumenico che cosa avete fatto?

«Ci sono state occasioni di preghiera in tutte le comunità che aderiscono al Ncccusa (circa 100.000 con 45 milioni di credenti), ma la sensazione riguardo al’11 settembre è per noi ambivalente. È una data tragica ma ha aperto la strada ad altre tragedie che avremmo voluto evitare. Quindi come Consiglio ecumenico non abbiamo intrapreso nessuna iniziativa specifica».

E a suo tempo, come avevate reagito?

«Come tutti, eravamo stupiti, impauriti. Da Pearl Harbour l’America non aveva subito un attacco, la guerra era sempre altrove, lontana. Ci confortò molto l’unità del paese e la solidarietà delle nazioni estere. Ma di fronte alla tragedia avremmo voluto una risposta misurata. Volevamo che Osama Bin Laden fosse catturato e assicurato alla giustizia. Niente guerra. Non volevamo che il nostro paese si arrendesse al mito della violenza redentrice: siamo stati colpiti, ora dobbiamo restituire il colpo. Le chiese evangeliche storiche che si autodefiniscono liberal si trovarono in difficoltà. Mentre la rabbia e la paura prendevano gli americani alla gola, la loro risposta misurata e pacifista non fu compresa dalla maggioranza della popolazione che voleva vendetta e soluzioni rapide».

Ma la guerra in Afghanistan non bastava per restituire all’America la sensazione di essere al sicuro?

«No, infatti, ci preparavamo a quella in Iraq. Nell’autunno 2002 i leader delle chiese protestanti storiche annunciarono una stagione per la pace. Ci furono manifestazioni, assemblee, in collaborazione con tutte le chiese e con i gruppi pacifisti, per opporsi alla guerra in Iraq che sembrava imminente. Noi eravamo in contatto con chiese protestanti liberali e con i gruppi pacifisti in tutto il mondo. Eravamo in contatto anche con i cristiani in Iraq che non sostenevano Saddam ma che sarebbero stati tra le vittime della guerra. Il movimento culminò in una serie di manifestazioni di massa. Il 15 febbraio 2003 dieci milioni di persone marciarono in centinaia di città contro la guerra in Iraq. A quel punto credemmo che la nostra voce fosse così forte che sarebbe stato impossibile dichiarare guerra. Per molti di noi fu un colpo durissimo dal punto di vista psicologico quando capimmo che l’impegno per la pace di tutto il mondo era stato vano. Avevamo incontrato Putin, l’allora cancelliere tedesco Schroeder, il Papa, e moltissimi altri leader mondiali. Ma il presidente Bush, il nostro presidente non ci ha ricevuto. Per gli evangelical la porta invece era sempre aperta. Gli dicevano quello che voleva sentirsi dire».

Che cosa ci ha lasciato l’11 settembre?

«Io credo che l’eredità dell’11 settembre sia un completo disastro. Ci siamo impegnati in una guerra senza senso in Iraq, che continua ad avere il suo impatto in tutto il Medio Oriente. Abbiamo perso migliaia di soldati americani (4993) e gli Stati Uniti hanno ucciso centinaia di migliaia di iracheni, sia militari sia civili. Abbiamo buttato via migliaia di miliardi di dollari (1700, secondo uno studio della Brown University, Rhode Island) in questa guerra inutile e abbiamo piantato i semi della discordia per gli anni a venire. La War on Terror è stata persa perché non si può dichiarare guerra al terrore come non si può dichiarare guerra alla povertà o alla droga. Lo abbiamo imparato a nostre spese. Noi americani siamo prigionieri del mito dell’eccezionalità dell’America. Le leggi internazionali, le convenzioni non si applicano al nostro Paese perché noi siamo eccezionali e siamo i salvatori del mondo. Questa mentalità è pericolosa e i cristiani, soprattutto loro, devono rifiutare questa idea. Noi siamo un buon paese, ma siamo come tutti gli altri, e facciamo errori. Dobbiamo ammetterli e pentirci dei nostri peccati e incamminarci verso un nuovo e positivo futuro. Possiamo ancora farlo».

Lo One World Trade Center ha preso il posto delle torri gemelle nella skyline di Manhattan. Sono passati 15 anni dall’ultimo giorno in cui l’America si è sentita al sicuro. E ancora oggi sulle paure nate quel giorno qualcuno fonda la propria campagna elettorale. Trump, costruendo un muro al confine con il Messico, promette di fare grande l’America com’era un tempo (ma non dice quale). Tra poche settimane si scioglierà il nodo: se gli Stati Uniti siano guidati nelle loro scelte di politica internazionale dal realismo politico o dal ricatto del terrore.

(il testo di questa intervista fa parte del reportage «L’ultimo giorno» andato in onda su Raidue domenica 11 settembre, nellambito della trasmissione Protestantesimo)

Immagine: Downtown Manhattan oggi