2016-08-25_18

I dubbi della Francia fra laicità e fondamentalismo

Fonte: Riforma e Nev

Pochi giorni prima dell’ultimo Sinodo valdese e metodista, nel consueto incontro dei pastori/e e diaconi/e, il pastore Paolo Morlacchetti in servizio nella Chiesa protestante unita di Francia ha presentato la sua esperienza di lavoro in team. Questa nuova modalità nasce da un’esigenza concreta: far fronte al calo di membri di chiesa e di pastori negli ultimi decenni. Una lezione utile, sebbene in un contesto molto diverso, anche al di qua delle Alpi…

«Queste esperienze esistono da anni in Francia, spiega Morlacchetti, e funzionano solo quando le comunità si mettono insieme e decidono che cosa vogliono fare con il lavoro in team dei pastori. Le esperienze precedenti erano calate dall’alto, si diceva “siete tre pastori per quattro chiese, dovete fare un team”, negli ultimi anni si è detto: “siete quattro chiese, dovete diventare una sola chiesa e decidere che cosa volete dai pastori e che cosa potete fare voi”. C’è stato quindi un grande incoraggiamento dei ministeri locali, per le visite, la predicazione, che ha fatto sì che nella regione storica delle Cévennes-Languedoc-Roussillon [finora la prima e unica a realizzare questo processo, ndr] questo lavoro funzionasse, non tanto perché i pastori hanno trovato un meccanismo per farlo funzionare, quanto piuttosto perché le chiese si sono adeguate. Il mio caso è un po’ diverso, abbiamo un solo luogo di culto e siamo due pastori, perché Nizza è una grande comunità, ma in ogni caso chi guida il nostro lavoro in team è il consiglio di chiesa. Ed è un’esperienza molto positiva: a creare il team non siamo stati noi pastori, ma la chiesa stessa».

Un’altra profonda differenza tra Francia e Italia riguarda la diaconia. Un tema centrale nel dibattito sinodale e una presenza molto forte nella realtà valdo-metodista, in Francia come stanno le cose?

«La legge del 1905 definisce i criteri di esistenza delle chiese, ognuna deve essere costituita come associazione cultuale, con l’unico scopo l’esercizio del proprio culto. Per questo motivo la diaconia deve necessariamente svolgersi al di fuori di questo quadro, una comunità locale che voglia fare diaconia deve creare un’associazione separata, anche se poi magari le persone che la compongono sono le stesse. Per questo nelle chiese francesi (non solo protestanti) non esiste il ministero diaconale, e per questa ragione la diaconia protestante si è più o meno allontanata dalla dimensione cultuale, a seconda dei contesti locali».

La stessa separazione che esiste fra Chiesa e Stato si ritrova quindi fra chiesa e diaconia…

«Sì, non ci può essere un principio di “vasi comunicanti” tra diaconia e dimensione cultuale, perché una chiesa non può versare soldi a un’associazione diaconale, l’inverso è possibile solo in condizioni particolari. La diaconia resta una dimensione vicina, fa parte della nostra identità cristiana e della predicazione evangelica, ma dal punto di vista giuridico ed economico c’è una separazione molto netta. Tant’è vero che al Sinodo nazionale della chiesa protestante unita la rappresentatività delle opere diaconali è molto blanda, il Collegio delle opere e dei movimenti elegge dei delegati ma questi sono presenti soprattutto come osservatori, non hanno diritto di voto».

Non esiste quindi un corrispettivo della Commissione sinodale per la diaconia della Chiesa valdese?

«No, ma si possono creare delle Fondazioni che raggruppano varie opere diaconali; attualmente ci sono delle grosse strutture diaconali (ad esempio la Fondation John Bost, per le persone diversamente abili) ma devono essere totalmente indipendenti dalla chiesa, non può esserci un coordinamento, quindi il rapporto fra chiesa e diaconia deve essere costruito e reinventato ogni giorno. La sfida principale per noi è mantenere un legame, sottile ma profondo, in un quadro giuridico in cui questa separazione deve essere netta».

Il tema della separazione fra chiese e Stato ci riporta all’attualità, agli interrogativi sul significato e i limiti della laicità nati dalle polemiche sul ‟burkini” e il suo divieto da parte di diversi Comuni della Francia mediterranea. Questi si sono appellati alla legge che proibisce i segni religiosi ostentatori nei luoghi pubblici, ma non tutti sono d’accordo con questa interpretazione…

«Il rapporto con l’islam sta mettendo in evidenza la fragilità della legge del 1905. Oggi lo Stato si trova a confrontarsi con questa piccola parte radicale dell’islam e non ha gli strumenti per controllarla, ad esempio per quanto riguarda i luoghi di culto, gli stipendi di certi imam. Il primo ministro Valls ha evocato più volte la possibilità di rimettere in discussione la legge, o di creare una Fondazione per l’islam che permetta ad esempio di finanziare la costruzione di nuove moschee ed evitare finanziamenti di dubbia provenienza…».

A questo proposito non si può non tornare a quel tragico 14 luglio: come hanno reagito le chiese, la politica, i cittadini?

«Nei giorni successivi si respirava un clima di grande tensione, penso che la città abbia reagito esattamente nel senso che auspicavano i terroristi. I discorsi dei politici locali continuavano a dire che lo stato di emergenza deve essere rafforzato. Non hanno capito che se questo attentato è accaduto in pieno di stato di emergenza vuol dire che la soluzione è un’altra: secondo noi responsabili religiosi va cercata nel lavoro degli operatori sociali a contatto con il disagio, negli educatori e negli insegnanti, ma anche dalle comunità religiose, che devono essere unite e dire in primo luogo che non abbiamo paura, in secondo luogo che il vivere insieme e la tolleranza sono valori imprescindibili e devono essere difesi: i terroristi attaccano proprio questi valori, che una volta distrutti potrebbero creare un clima di odio e tensione tale da arrivare quasi a una guerra civile; questa è la preoccupazione della maggioranza dei musulmani».

Questo sembra essere confermato dal profilo dell’attentatore, non un praticante ma una persona che si è radicalizzata molto velocemente…

«La forza di Daesh è di sapere sfruttare il malessere sociale e la disperazione personale, dare un fondamento se non teologico almeno religioso alla loro sofferenza e al loro odio verso la società. Quest’uomo ha sublimato il suo suicidio in un atto di martirio. Si capisce quindi che il pericolo non può essere sventato con l’intervento militare, ma solo con un lavoro di accompagnamento sociale sul territorio, con le persone in difficoltà, senza speranza e prospettive, vittime dell’esclusione e del razzismo. Se la Francia non si interroga sulle sue sacche di esclusione e sofferenza è impossibile risolvere il problema».

Immagine di Pietro Romeo