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La morte del pubblico

Volevamo scrivere delle belle storie che fanno da cornice e sono le piacevoli scoperte di un grande evento sportivo, sempre con il timore e la prudenza dettata dal rischio di cadere in facili agiografie di donne e uomini, celebrati quali semi-dei un giorno, per poi magari scoprire l’indomani retroscena poco nobili e guardarli precipitare dagli altari cui li avevamo elevati alla polvere della cronaca.

Volevamo parlare di quello che è lo sport più bello, il calcio, l’unico che vive di una manciata di momenti decisivi nell’arco di un incontro, l’unico che consente alla squadra anche molto più debole di portare a casa la pelle e magari di compiere un’impresa, come questi Europei francesi ancora una volta hanno dimostrato.

Secondo quanto appena detto volevamo quindi celebrare le gesta dei calciatori islandesi, orgoglio di una nazione di 300 mila abitanti, il 10% dei quali era al seguito della squadra, un tifo e una partecipazione commoventi.

Volevamo parlare dell’Albania e della sua storica prima volta ad una fase finale di un campionato europeo: le feste per le strade di Tirana, il picchetto d’onore della Guardia nazionale e i saluti del premier Edi Rama.

Volevamo parlare di una nazione, l’Inghilterra, che ha cominciato la competizione da membro dell’Unione Europea e ne è uscita, ingloriosamente eliminata dall’Islanda di cui sopra all’indomani del clamoroso Brexit, mentre le piccole Irlanda del Nord e soprattutto Galles (3 milioni di abitanti, capace di arrivare in semifinale) parevano fornire una risposta sportiva alla voglia di autonomia del Regno Unito.

E soprattutto volevamo parlare di una nazione, la Francia, che nonostante mesi da incubo, ancora con lo stato di emergenza in vigore, riusciva comunque a tenere botta davanti a un massiccio afflusso di tifosi, dopo i paurosi sbandamenti iniziali causati in particolare dagli hooligans inglesi e russi, mentre da tutte le parti le Cassandre di turno preannunciavano ecatombi e martiri. Le feste e le strade e gli stadi pieni sono invece la migliore risposta a chi ci vorrebbe vedere spendere le nostre quotidianità nella paura.

E invece ancora una volta, e ci capita sempre e solo per questo sport maledetto, ci tocca parlare di morte. Non quella di un eroe caduto in attività o per vecchiaia, da ricordare sfogliando i personali album della memoria. Ma la morte del pubblico, dei tifosi che sfogano chissà che cosa fra calci a sconosciuti e sprangate tirate a caso.

E così come temevamo, tutto quanto detto finora diventa stucchevole, inutile orpello da non tramandare, ma da nascondere nella vergogna fino a quando non sarà possibile andare allo stadio come ad una festa.

 

P.S.

Proprio di queste ore è la notizia di 4 calciatori iracheni giustiziati a Raqqa, ennesima terribile testimonianza di quali abissi può toccare il fanatismo cieco, che teme lo sport quale simbolo di emancipazione. Non ci saranno coppe né interviste, solo l’orrore negli occhi del pubblico costretto ad assistere all’impiccagione, a diventare così complice suo malgrado della morte. In troppe parti del mondo anche correre dietro ad un pallone diventa un atto di coraggio.