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Dante, Joyce e Serafini alla ricerca di un senso

A Torino è stata inaugurata una ricchissima mostra dedicata a Dante, una delle più complete mai allestite, nei caveau della Biblioteca Reale. Sebbene del sommo poeta non sia rimasto neanche un autografo, l’immediato interesse che i suoi scritti hanno suscitato ha permesso di avere ereditato moltissimi manoscritti, riproduzioni e studi della sua opera. L’occasione è quella dei Centenari Danteschi, le ricorrenze della sua nascita e della sua morte che portano a Torino l’esposizione di 60 pezzi, visionabili fino al 30 luglio.

Nella stessa data altre due ricorrenze si incrociano e dialogano tra loro in maniera curiosa. Il 16 giugno 1904 Leopold Bloom, protagonista dell’Ulysse di James Joyce, percorre le strade di Dublino liberando il flusso di coscienza della sua vita interiore, e di quella degli altri personaggi, e mischiandola con quanto di sensibile avviene intorno a lui, lasciando i lettori affaticati come di fronte a mille pagine di calcoli logaritmici.

Nel 1981 Franco Maria Ricci, uno che dopo aver smesso di fare l’editore si è messo a costruire il labirinto più grande del mondo, pubblicava il Codex Seraphinianus, opera di Luigi Serafini, artista, architetto, designer, scenografo.

Questo libro, pieno di piante, animali, minerali e macchine fantastiche, è scritto con una lingua incomprensibile e intraducibile. Sembra possa essere letto sia da destra che da sinistra e descrive un mondo immaginario in modo sistematico. È a tutti gli effetti un’enciclopedia. Nel corso degli anni, e con la diffusione di internet, è stato più volte ripubblicato suscitando sempre più curiosità a ogni latitudine del globo (ovviamente non ha bisogno di essere tradotto) e a ogni latitudine del globo immagino abbia, in molti, portato alle labbra l’eterna domanda: cosa significa?

Ma il significato, come soprattutto le persone di fede sanno, è una ricerca.

Nell’arte non si avrà sempre esperienza del divino, ma un’esperienza di fede forse si.

L’essere umano e la sua necessità di comprendere è al centro di tutte e tre le opere.

La Commedia di Dante è un viaggio individuale e di ricerca secondo l’interpretazione e l’organizzazione del mondo e della vita medievale; nell’Ulisse il senso dell’io si fonde totalmente con l’esterno, abbattendo i muri del dentro e fuori di noi creando un senso di coscienza diffusa; il Codex, al di la dell’essere stato pensato e realizzato, un senso semplicemente non ce l’ha.

Tutte e tre sono opere d’arte che hanno a che fare con la bellezza perché tutte hanno a che fare con la verità. Nella nostra complessità di esseri umani e nella complessità della vita affrontiamo tutte queste esperienze: quella della necessità di un’organizzazione e un ordine cosmico, il riconoscere la nostra vita interiore e farla dialogare con la materia, e infine la capacità di creare mondi nuovi, sconosciuti e senza un significato comprensibile.

La Commedia, l’ Ulisse e il Codex sono valori universali che, come solo l’arte sa fare, uniscono attraverso dei linguaggi, comprensibili o meno, ma che in qualche strano modo riescono a dialogare con chiunque di noi. Una relazione che si basa non sulle differenze e le peculiarità che ci contraddistinguano, ma attraverso la ricerca e il riconoscimento di simboli comuni.

Simboli che possono avere il carattere medievale della ricerca dell’ordine cosmico della Divina Commedia o segni grafici che vogliono abbattere la separazione tra coscienza e esperienza sensibile. Oppure possono essere visioni di mondi inconoscibili e affascinanti che ci pongono di fronte a immagini fantastiche e scritte incomprensibili, che ci ricordano costantemente quando eravamo bambini e ancora avevamo la sensazione che il mondo fosse un mistero da scoprire e interpretare, e che non smetteremo mai di imparare qualcosa di nuovo.

Foto Di Luigi serafiniOpera propria, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=49321512