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L’Utopìa compie 500 anni

Cinquecento anni fa l’umanista inglese Tommaso Moro pubblicava L’Utopia, la sua opera più famosa, e contemporaneamente si diffondeva il neologismo da lui coniato, utopìa, gioco di parole che Moro derivò dal greco antico ou-topos (cioè non-luogo) ed eu-topos (luogo felice).

Sotto il regno di Enrico VIII, Moro, versione italianizzata del vero nome, Thomas More, difese i principi del cattolicesimo e l’autorità papale, una difesa che gli costò poi la vita.

Fu grande amico di Erasmo da Rotterdam, che a lui dedicò il suo Elogio della follia, salvo poi prendere le distanze da lui per le inconciliabili visioni ideologiche in relazione alla diffusione della Riforma protestante.

Nel libro L’Utopìa, Moro individua nella proprietà privata il male dei mali e immagina una società e una città ideali, nella quale tutti hanno un lavoro di sei ore al giorno e in cui ognuno può dedicarsi alle proprie passioni, allo studio della filosofia e della scienza. Un luogo dove è d’obbligo credere nella provvidenza di Dio e nell’immortalità dell’anima ma dove è prevista una larga tolleranza religiosa.

I cinquecento anni da quella pubblicazione sono l’occasione per confrontarsi su cosa è stato, nel Novecento, il pensiero legato alla città ideale, ed è proprio quello che fa il museo Mart di Trento con la mostra La città utopica. Dalla metropoli futurista all’Eur42.

Ce ne parla la curatrice, Nicoletta Boschiero.

In che contesto si inserisce e cosa celebra questa mostra?
«Siamo stati invitati dalla provincia autonoma di Trento a elaborare il tema dell’utopìa, visto che nel 2016 ricorrono i 500 anni dalla pubblicazione del famoso libro L’Utopia di Tommaso Moro.
Naturalmente ogni istituzione in Trentino è stata invitata a farlo secondo le proprie possibilità e attitudini.
Il tema della città utopica, che vede le sue origini proprio nel futurismo, che sognava una città che potesse partire da zero, da una tabula rasa, ci vede protagonisti per via del nostro ampio archivio di documenti che parlano di futurismo, oltre a un centro a esso dedicato. Ci pareva una buona pratica quella di ragionare su una città futurista, che poi ha una lunghissima percorrenza, perché il futurismo nasce nel 1909 e si conclude con la morte di Marinetti nel 1944: un lungo periodo».

Che tipo di percorso viene proposto?
«Il ragionamento che abbiamo fatto è quello di valutare quali sono state le radici di una possibile città futuribile. Antonio Sant’Elia, di cui abbiamo richiesto dei lavori perché non è presente nelle nostre collezioni e di cui tra l’altro quest’anno ricorrono cento anni dalla morte, è presente con quattro opere. Quello che ci appare oggi straordinario in questo artista è che questi progetti di città siano molto freschi e attuali, e di fatto lo sono perché non sono mai stati realizzati. In qualche modo ci presentano un eterno presente, dal momento che non hanno dovuto subire il degrado di una vita concreta. Ecco perché ci affascinano profondamente a tutt’oggi. Sembra anche che Sant’Elia abbia ispirato Fritz Lang nel 1927 per il suo Metropolis, di cui si può vedere un frammento nella mostra. C’è quindi questa città solcata da ponti con delle vie molto alte e varcata da una serie di piccoli aeroplani. Tra l’altro il film è ambientato nel 2026, tra dieci anni, quando si immaginava l’esistenza di una città fondata su più piani, poi si è visto che questo tipo di città non è stata possibile da realizzare così come era stata pensata: in mezzo ci sono state delle guerre e c’è anche il problema di conservare quello che già c’è. Allora si credeva di poter procedere serenamente con la fondazione di una città nuova. Questo accadrà in pieno regime fascista negli anni ’30 quando, dopo la bonifica dell’Agro Pontino si riusciranno a fondare delle città ex novo. Anche qui ci si è imbattuti in una problematica che è quella di pensarla in astratto e non per chi ci sarebbe andato ad abitare e quindi sono città che alla loro origine non hanno mai previsto dei luoghi di aggregazione per gli abitanti. Anche questo è piuttosto curioso perché da sempre l’utopia è un fenomeno astratto. Questo è quello che ho cercato di dire attraverso la mostra, anche se è un tema molto ampio».

Queste città ideali sono destinate a non esistere del tutto o qualcosa di questo pensiero è applicabile alla realtà?
«La cosa che mi aveva colpito quando ho cercato l’etimologia di utopia è che ha un duplice significato: sia non luogo, cosa non realizzata, ma anche buon luogo, che è l’accezione prevista da Tommaso Moro, un luogo dove si possa stare bene e pensato per gli uomini. Questo scarto tra le due modalità mi ha fatto pensare. Oggi l’antropologo Marc Augé parla dei non luoghi: spazi di movimento molto contemporanei come gli aeroporti, le stazioni, i centri commerciali destinati a un transito veloce e dove non si pensa mai a una sosta fisica. Luoghi anonimi. Questa accezione del non luogo quindi è molto moderna perché è proprio nel futurismo che l’attenzione degli architetti viene dedicata a questi luoghi che sono, appunto, gli aeroporti e le stazioni. È tutto un discorso legato alla velocità del movimento, una parola chiave del futurismo».

Paradossalmente quelli che rappresentano di più dei luoghi ideali sono quelli in cui ci si sente meno accolti?
«Sì, perché sono astratti e fanno leva sulla finzione. Molti degli artisti che proponiamo, tra l’altro, hanno lavorato anche per il teatro. Guarda caso l’Eur, quello che doveva essere lo scenario dell’esposizione universale del 1942, che poi non venne realizzata per l’approssimarsi della Seconda Guerra Mondiale, negli anni ’60 e ’70 diventa il luogo privilegiato per alcuni set cinematografici; ci girò innanzi tutto Fellini, che affermava di trovarlo straordinario perché sembrava che potrebbe sbaraccare il giorno dopo. In effetti era stato pensato per una durata limitata nel tempo, anche se poi l’Eur diventerà un quartiere molto popolato e abitato. È curiosa questa commistione tra la temporalità e la teatralità e poi, negli anni ’60 e ’70, il cinema».

Si è smesso di creare utopie in riferimento alle città?
«Credo di no. Nella mostra ho dato un’impronta temporale perché mi interessava soprattutto il periodo ritmato da una serie di manifesti futuristi: innanzitutto quello sull’architettura del 1914 di Sant’Elia che diceva che ogni generazione dovrà costruirsi il proprio edificio. Come se gli edifici dovessero morire con noi e con chi li abita. Poi via via attraverso l’aeropittura, l’aeroarchitettura c’è una teorizzazione di quello che potrà essere la nuova città. Mi interessava l’aspetto filosofico studiabile attraverso i manifesti ma, a tutt’oggi, continuamente si pensa in questo senso perché pensare all’utopia significa immaginare qualcosa di migliore, anche se non sempre si riesce a realizzarlo».

Foto: The Yorck Project: 10.000 Meisterwerke der Malerei. DVD-ROM, 2002. ISBN 3936122202. Distributed by DIRECTMEDIA Publishing GmbH., Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=152982