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Elezioni Usa: un drammatico quadro politico

Portelli, è difficile riuscire a districarsi e comprendere cosa stia capitando negli Stati Uniti in queste frenetiche ore per le presidenziali. Lei ci può aiutare?

«La situazione è molto complessa e contraddittoria e soprattutto le informazioni che ci giungono sono frammentarie e parziali. Mi sento di poter dire che ciò che si sta manifestando con il voto delle primarie – sapendo che al voto sono coinvolti solo gli iscritti ai due partiti e dunque non la maggioranza dei potenziali elettori – è che questo particolare voto esprime significativamente il disagio profondo che intercorre tra i cittadini e le istituzioni e più precisamente tra i cittadini e la politica. La presenza nel partito repubblicano di Donald Trump, da una parte, e quella di Bernie Sanders nel partito democratico, evidenziano il drammatico quadro politico statunitense. Eppure, malgrado il diffuso malcontento sui candidati, l’elettorato continua a votare per una strenua difesa del processo democratico. Credo che al termine dei giochi a “portarsi a casa” la presidenza sarà Hilary Clinton, candidata che ben pochi apprezzano, ma l’unica in grado di contenere la proposta Sanders e le stravaganze di Trump.

Eppure Donald Trump con le sue «stravaganze», sembra essere ad ogni tornata elettorale sconfessato per poi riemergere dalle ceneri dalle quali era stato sommerso. E così?

«Più lo si sconfessa più lo si conferma come paladino dell’anti establishment. Più l’establishment afferma di non volerlo, più l’elettorato che lo segue riceve la conferma del suo essere nuovo rispetto alla politica precedente. Più lo si sconfessa più lo si accredita e più lui si afferma e accredita come il candidato giusto al momento giusto».

Da dove nasce politicamente il personaggio Trump?

«Una volta si diceva che mode, invenzioni, musiche, stili, partivano dall’America per poi arrivare in Italia, che immediatamente emulava. Non è più così, anzi oggi è l’Italia ad insegnare agli Stati Uniti con il suo esempio, soprattutto se si parla di politica. Con Berlusconi abbiamo insegnato al mondo intero che si poteva governare utilizzando un nuovo modello di figura politica e di leadership. Abbiamo insegnato che esistono standard diversi per far dialogare politica e elettori: demagogia e false promesse sono state raccontate e incarnate da figure di successo. Trump è un uomo ricchissimo che può pagarsi l’indipendenza politica crogiolandosi nel suo manto di uomo d’affari; seppur ormai sia chiaro a tutti che il fiuto per il business non è una sua prerogativa. Lo sono invece le eredità famigliari e gli affari poco chiari che in questi anni lo hanno visto sulle pagine delle cronache. Poi gode di grande visibilità, grazie anche ad un reality show al quale ha partecipato. Fattori che rendono Trump un personaggio più che un uomo politico. La sua è invece l’incarnazione di una politica anticostituzionale: icona di un leader che parla alle masse ponendo domande che sono reali. Che fine ha fatto il sogno americano? Perché le persone che lavorano tutto il giorno e ricevono uno stipendio non sono in grado di arrivare a fine mese? Domande reali, certamente, alle quali però lui non risponde mai in modo chiaro ma bensì aleatorio e pericoloso, spesso indicando come i colpevoli di tutti i mali gli immigrati o i musulmani. Wall Street e le grandi finanziarie, anche per Bernie Sanders, sono da condannare (come la Casta per noi in Italia) incolpando le élite finanziarie e quelle politiche che manovrano e lucrano sulle spalle della povera gente. Trump, con maestria, aggiunge il richiamo alle paure contro i neri, gli afroamericani, e utilizza modalità maschiliste. Il suo esplicito razzismo e antifemminismo sono elementi di calamitanti per una grande fetta di elettorato, purtroppo».

Barack Obama ha lanciato un monito al partito repubblicano sostenendo: «se le urne danno ragione a Trump vuol dire che egli parla a nome di tutti voi».

«Dovrebbe chiedersi anche come mai dopo otto anni di presidenza, l’eredità lasciata è quella di personaggi come Donald Trump. La colpa di Obama, a mio avviso, è quella di aver fatto politica cercando consenso e accordi proprio con i repubblicani, senza riuscire davvero ad ottenere nulla di concreto. Cosa invece che ritengo meritoria è l’aver rimesso in marcia l’economia. Non ha però salvato o aiutato le vittime impoverite da banche e finanziarie e non ha mantenuto le promesse fatte in campagna elettorale a sostegno dei diritti sindacali».

Eppure su Obama erano state riposte molte speranze all’alba del suo mandato?

«Speranze e passioni per un cambiamento, che poi non è mai arrivato. Fermo restando che, per quel che mi riguarda, Barack Obama è stato il miglior presidente che gli Stati Uniti abbiano mai avuto da mezzo secolo a questa parte. Purtroppo il suo modo di fare politica, molto interno alle istituzioni, non ha saputo dare risposte alla crescente distanza tra società civile e istituzioni».

Obama ha ricordato a molti afroamericani il sogno di Martin Luther King e molti evangelici lo hanno sostenuto. In questa nuova tornata presidenziale l’elettorato evangelico dove si schiera?

«La base religiosa tradizionale, ossia la destra religiosa e che per capirci aveva sostenuto Reagan, si è identificata nel candidato Cruz che esplicitamente si richiamava agli evangelici. Trump incarna tutto ciò che la base religiosa tradizionale dovrebbe ripudiare e odiare e invece sembra essere in grado di calamitarne i voti. Questo fatto ci suggerisce che spesso i grandi discorsi sui valori e sui principi sono in realtà sovrastrutture per coloro che si dichiarano credenti praticanti».

La resa di Cruz?

«Cruz forse era altrettanto pericoloso, quanto Trump. Pensare che i repubblicani potessero riporre speranze su Cruz ci fa capire chiaramente che il partito repubblicano non è riuscito ad esprimere in questi anni nulla che fosse minimamente sensato e plausibile».

La politica internazionale condiziona queste presidenziali?

«La politica estera non è presente in questo dibattito elettorale, è evidente a tutti. L’unica cosa che emerge sempre è il sostegno incondizionato alle attuali politiche del governo israeliano. L’unico ad aver espresso posizioni più equilibrate è stato Sanders».