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Dall’Olanda uno schiaffo all’Europa

Il 6 aprile gli elettori dei Paesi Bassi hanno respinto il referendum consultivo sull’accordo di associazione tra Unione Europea e Ucraina. I “no” si sono imposti con il 61,1% dei voti, mentre il quorum, fissato al 32%, è stato superato di poco.

Il referendum, non vincolante, chiedeva ai cittadini olandesi di esprimersi sull’accordo di associazione dell’Ucraina all’Unione Europea, che comporta una maggiore integrazione legislativa ed economica e un rilancio della collaborazione commerciale. L’accordo era stato sottoscritto nel 2014, nel pieno della crisi che il Paese sta ancora vivendo, ed era stato ratificato da tutti i membri dell’Unione europea. Durante la campagna elettorale, la consultazione era presto passata dal riguardare l’Ucraina all’interrogare i cittadini sull’Europa, e per questo la lettura più diffusa è quella di una netta vittoria da parte dei movimenti euroscettici, considerati in crescita in quasi tutta l’Unione. Secondo Pietro Rizzi, osservatore elettorale dell’Osce durante le missioni in est Europa e collaboratore della rivista East Journal, «in concreto al momento per l’Ucraina non cambierà nulla, perché l’accordo di associazione che è entrato in vigore provvisoriamente dal primo gennaio continua a rimanere in vigore».

Quali opzioni ha ora il governo olandese?

«Il parlamento e il governo devono decidere cosa fare di questo referendum, ovvero se prenderne in considerazione l’esito oppure no. Il primo ministro Rutte ha annunciato che per ora verrà ritirata la ratifica, che era inizialmente stata approvata dal Parlamento olandese, quindi molto probabilmente l’Olanda sarà l’unico paese europeo escluso dall’accordo.

A questo punto, però, ci sarà da risolvere la situazione, perché l’Europa ha già speso più di una parola con l’Ucraina dicendo che l’accordo va fatto, e il governo olandese si trova tra due fuochi: non vuole mettere in scacco questo accordo, ma non può trascurare quanto i cittadini hanno affermato con questa consultazione. Molto probabilmente si troverà un metodo “all’italiana” per salvare l’accordo, probabilmente apponendo una forma di riserva, per cui i Paesi Bassi non applicheranno determinate parti di questo accordo, mantenendo però l’accordo in vigore».

Cosa prevede l’accordo di associazione?

«Si tratta di un’intesa principalmente commerciale che elimina alcuni dazi e cerca di stabilire delle regole tariffarie particolari in cambio di determinate garanzie, soprattutto da un punto di vista democratico, di gestione del governo e delle risorse interne. Ciò che rende particolare questo accordo è che solitamente le ratifiche dei singoli parlamenti passano inosservate, senza problemi, mentre qui è andata diversamente».

Possiamo dire che questo voto abbia più significato per l’Europa che per l’Ucraina?

«Sì, esatto: gli stessi organizzatori hanno più volte affermato che, più che contro l’Ucraina e contro l’accordo, questo referendum era un modo per schierarsi contro l’Unione europea. La legge che ha dato la possibilità agli olandesi di richiedere il referendum consultivo non vincolante è del luglio 2015, quindi il caso-Ucraina è capitato nel miglior momento possibile: è un tipico argomento facilmente strumentalizzabile, perché si può presentare parlando della minaccia di un arrivo di frotte di immigrati ucraini nel mercato del lavoro europeo, anche se l’accordo non lo prevede».

Si può pensare che la Russia sia molto soddisfatta di questo risultato?

«Certo. A livello ufficiale non sono stati espressi commenti, però il concetto è chiaro: Putin, che è molto pragmatico e quando decide una cosa normalmente la fa e se vuole farla riesce a farla immediatamente, starà ridendo a pensare a quanto l’Unione europea si sia impegnata nei confronti dell’Ucraina, l’ha definita a più riprese un partner fondamentale, e ora, mesi dopo aver siglato questo accordo, è stato sufficiente un piccolo numero di abitanti europei per bloccarlo. In Russia sicuramente ridono, ma è difficile pensare che, arrivati a questo livello di scontro, l’Ucraina vada verso un riavvicinamento alla Russia».

Sì, tra le altre cose va ricordata la crisi energetica e anche il nodo ancora aperto della Crimea. Su tutto, però, pesa il conflitto del Donbass, che sembra un po’ dimenticato. Qual è la fotografia attuale?

«Il conflitto è sempre lì. Non c’è un giorno senza un morto in Donbass, ma il tutto è sparito dai giornali perché sembra che si sia ridotto di intensità. Attenzione, però: la guerra c’è ancora, non è congelata, perché volano proiettili e colpi di mortaio, e l’Unione europea dovrebbe tenere più alta l’attenzione su quello scenario. Il gruppo di dialogo di Minsk, che cerca di dialogare tra i separatisti e l’Ucraina sotto l’egida dell’Osce, prova sempre a cercare compromessi e soluzioni, ma si riesce a fare davvero poco. Si è fermi all’accordo Minsk II del febbraio 2015, quando volarono nella capitale della Bielorussia il presidente francese François Hollande e la cancelliera tedesca Angela Merkel. Da allora non ci sono grosse novità, se non che in Donbass ogni giorno si muore e milioni di persone sono senza quei minimi standard di vita normale che sarebbe opportuno cercare di ristabilire».

Nel frattempo a Kiev si litiga, e al termine di un’agonia durata mesi il governo di Arseniy Yatsenyuk è arrivato al capolinea. Questo su entrambi i processi, cioè l’integrazione europea e la risoluzione del conflitto, cosa cambia?

«Questa crisi di governo si trascina da vari mesi, e da diversi mesi Arseniy Yatsenyuk è tirato per la giacchetta affinché si dimetta. A quanto pare è stata organizzata dall’alto, dal presidente Poroshenko, che è molto attivo in tal senso, e sembrerebbe che che nelle ultime settimane sia riuscito a organizzare un’uscita di Arseniy Yatsenyuk, che domenica ha rassegnato le dimissioni. Ora si cerca un accordo con i partiti che dovrebbero assicurare una coalizione capace di tenere in piedi un governo. Molto probabilmente verrà nominato primo ministro Groesemann, che è un fedelissimo di Poroshenko, e quindi si pensa che a questo punto andranno avanti sia da un lato i rapporti con il gruppo di contatto di Minsk, ma non direttamente con i separatisti, sia dall’altro le riforme, uno dei punto su cui Yatsenyuk è stato maggiormente contestato. Il dubbio è però se il presidente Poroshenko non avrà eccessivi poteri: avendo un primo ministro suo fedelissimo ed essendo ormai lui in carica da due anni è molto probabile che il primo ministro assuma un ruolo secondario e sia sempre più sulle spalle del presidente l’onere e l’onore portare avanti queste trattative sia da un punto di vista interno sia da un punto di vista esterno per la crisi in Donbass. Gli esiti sono difficili da prevedere, anche perché si riducono gli attori ma non è detto che si riduca anche la complessità».

Foto da Kiev, Stefano Stranges