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Sulla morte di Zaha Hadid

L’architettura è spesso considerata una disciplina autoreferenziale, interessante solo per gli addetti ai lavori benché quotidianamente noi vediamo e viviamo in spazi pensati e concepiti attraverso lo studio e la progettazione architettonica. Se ciò che ci sta intorno comincia ad avere qualche interesse è grazie a persone come Zaha Hadid, archistar per antonomasia.

Alcuni sono molto critici sulla figura delle archistar perché promuovono una visione dell’architettura basata sul pezzo unico e non sulla costruzione del tessuto cittadino; bisogna però riconoscere che questi particolari architetti sono persone, prima ancora che professionisti, che uniscono talento artistico, visione progettuale e architettonica con concretezza e capacità gestionale. Una doppia natura che le rende degne di ammirazione e che fa sì che sia giusto ricordare Zaha Hadid, anche se può essere stata un personaggio controverso.

Ne parliamo con Subash Mukerejee, architetto e docente presso il Politecnico di Torino.

Come mai la scomparsa di Zaha Hadid ha destato così tanto interesse?

«Non mi sono stupito quando ho visto la quantità di notizie sulla sua morte. La ragione penso stia nel fatto che ormai era diventata un’icona dell’architettura contemporanea. Si trovava nel momento più fulgido della sua carriera, aveva un’età tutto sommato giovane per un architetto, 65 anni. È morta proprio mentre il suo studio stava “esplodendo”: aveva in costruzione e in progettazione un numero di opere enormi. Sostanzialmente se n’è andata in un momento in cui non avrebbe dovuto, nel momento del massimo fulgore.

Era stata oggetto di critiche perché era l’archistar per antonomasia, anche per via della sua immagine, era un personaggio estremamente carismatico. Irachena di nascita, donna di grande personalità, si presentava con indosso abiti molto scultorei quasi a riprendere il suo lavoro. Oltre a essere un architetto di grande talento era lei stessa un personaggio, anche per questo la sua scomparta ha destato così tanta attenzione».

Era una donna, una stella dell’architettura e le sue origini erano irachene, per tutti questi motivi era un’icona?

«Sì, ed era una donna estremamente forte. È stata la prima donna architetto a vincere il Pritzker Price, praticamente il Nobel per l’architettura, il premio più prestigioso. In un mondo che è notoriamente di predominanza maschile, è stata una persona che ha aperto la strada alle donne verso la fama in questa disciplina.

Tengo a sottolineare un aspetto: di solito si sottolinea il talento artistico degli archistar ma si sottovaluta spesso, forse perché non fa notizia, il talento imprenditoriale. Era in grado di mettere in campo una potenza progettuale e visiva, manovrando e gestendo uno studio che col tempo ha raggiunto i 300 dipendenti. Questo richiede un talento non comune e anche sforzi e stress non comuni».

Da docente, come si insegna Zaha Hadid?

«Di certo, almeno nelle scuole italiane e dove l’architettura è studiata in un certo modo, Zaha Hadid è vista in modo controverso. Non è la mia posizione ma non è esattamente considerata un modello educativo. Proprio in quanto personaggio dalla natura estremamente individualistica nel suo modo di progettare, non mirava a proporre un metodo valido sempre ma aveva un metodo valido per lei in quanto autrice. Era abituata a essere chiamata e proporre un tipo di architettura fatta di pezzi unici. Nelle scuole si tende invece a insegnare un tipo di architettura che serva alla città e al mondo. Ci sono alcune scuole che insegnano agli studenti a diventare degli autori, però di architetti come Zaha Hadid nel mondo ce ne sono pochi perché la città si costruisce con un modello architettonico meno ambizioso e speciale. Per cui quando gli studenti provano a imitare Zaha Hadid e a cimentarsi in un tipo di architettura molto individuale e autoriale non sempre è visto di buon occhio dalle scuole. Questo dipende anche dal talento: Zaha Hadid aveva un enorme talento, un modo di vedere il mondo costruito che aveva solo lei. In particolare, per chi avesse voglia di andare a cercare i suoi disegni degli anni ’90, si può fare un’idea di come prima ancora che progettista di architettura costruita salì alla ribalta come autrice di disegni e progetti teorici di grandissima forza.

I suoi disegni sono esposti e venduti nelle gallerie come opere d’arte in sé».

Come descriverebbe il suo stile?

«Dividerei la sua carriera in due parti ma senza una cesura netta. All’inizio, ciò che l’ha portata alla ribalta del dibattito architettonico è stata la frammentazione e la dinamicità delle sue opere. Probabilmente è stata la prima al mondo a proporre un’architettura fatta di linee diagonali che evocassero la velocità, le sue opere erano come movimento congelato. La più famosa delle opere giovanili è il Vitra Center di Basilea che è tutta composta da schegge apparentemente lanciate verso il paesaggio. Non è la Zaha Hadid delle ultime opere. In vent’anni di carriera, grazie anche alle nuove tecnologie soprattutto informatiche, che permettono di controllare le curve come prima non si poteva fare, la sua architettura si è pian piano evoluta verso linee morbide. Nelle opere di questo tipo, come il Maxxi a Roma, la fluidità degli spazi e la continuità delle superfici sono il tratto distintivo. Oltre ovviamente alla scala gigantesca degli ultimi lavori.

Foto Di Knight Foundationzaha hadid, CC BY-SA 2.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=19590166