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Gianmaria Testa, nella voce la cifra delle sue canzoni

Nel luglio 2010 era stato ospite della rassegna artistico-letteraria «Una torre di libri», tenendo un concerto nel tempio valdese di Torre Pellice, accompagnato dalla sua chitarra e da un altro chitarrista. Il mondo della canzone d’autore piange Gianmaria Testa, scomparso ieri 30 marzo all’età di 57 anni, ma a piangerlo saranno soprattutto, idealmente, le persone che egli seppe cantare nelle sue canzoni e ballate: in particolare i migranti e gli sradicati.

La canzone di Gianmaria Testa, contenuta nelle forme, calibrata nei volumi sonori, all’apparenza monocorde e un po’ ripetitiva, priva di slanci «effettistici», raccontava nelle ultime sue produzioni le vicende di chi è costretto alla precarietà, alla fuga, allo sradicamento: ne fa fede soprattutto l’album «Da questa parte del mare» (2006), che all’attualità degli arrivi in un’Italia divenuta terra d’immigrazione univa la rievocazione dell’epoca in cui erano stati gli italiani a emigrare: i «ritals», come ci chiamavano i francesi a cui le nostre ragazze (anche dalle valli valdesi) a fare i servizi; o gli italiani che andavano in miniera (nella stessa Francia, in Germania o Belgio): una vita provvisoria, in sospeso, conosciuta anche da chi solcava l’Oceano (e di nuovo: anche dal Pinerolese, magari per trovare un futuro di integrazione come i valdesi in Sud America). Sempre fuori posto, fra nostalgie e lacerazioni dell’anima: «un abitare magro e magro/ che non diventa casa».

Proprio la casa però era anche, paradossalmente, l’immagine dello sradicamento «chez soi». Anche senza essere costretti alla fuga, erano estranei i vinti della storia, quelli che possono solo guardare. Il bambino di Giorgio Gaber («Bambini G») si sentiva dire dal padre, dall’alto della collina: «Guarda, un giorno tutto questo sarà tuo!». E l’altro bambino, il «figlio di nessuno», rispondeva: «Anche il mio papà un giorno mi ha portato sulla collina e mi ha detto: “Guarda!”. Basta». Testa cantò in proposito «La ca s-la colin-a», canzone in vernacolo piemontese (era cuneese, ed era fiero di un mestiere nobile, era ferroviere, anzi capostazione, prima di dedicarsi completamente alla musica, che lo ha visto trionfare a Parigi come in Germania): accennando a una delle più malinconiche canzoni di Springsteen («Mansion on the Hill», da «Nebraska», 1982), raccontava dell’innamoramento per una casa, appunto, sulla collina, da parte di uno che non se la potrà mai comprare. Il pensiero del cantautore era per chi l’aveva costruita, la casa: il povero muratore morto sfinito dopo aver finito il lavoro, un lavoro fatto per quattro signori.

Ma, a parte ogni considerazione sulla bellezza delle canzoni, va fatto per Gianmaria Testa il ragionamento che riguarda tutti i cantautori: non sono le parole a fare i capolavori, e neppure le melodie né gli arrangiamenti: l’elemento centrale, quello che fa emergere stile e personalità

è soprattutto la voce: e voce significa timbro, intonazione, scelta del registro (De Andrè, per fare un esempio illustre, si trasformava avendo a disposizione una voce nel registro più basso, adatta a determinate canzoni, e un’altra di registro più alto, adatta in particolare ai brani in genovese; ed è impossibile pensare alle canzoni di Leonard Cohen disincarnate dalla sua calda ruvidezza timbrica) volumi sonori, presenza scenica.

La voce di Testa era roca e non aggressiva; a volte il suo cantare era un recitare melodico; per questo dal vivo non c’era soluzione di continuità fra le note – sobrie anch’esse – con cui presentava i brani e la canzone che seguiva. Dolce nei testi d’amore e intriso di umana pietà nel racconto delle miserie umane: con poesia coglieva i drammi dell’oggi.

Foto Di Harald Krichel, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=30753362