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Conoscere l’altro per guardare oltre la guerra

Il progetto Nineveh Paths to Social Cohesion, Coexistance and Peace, realizzato dall’organizzazione italiana Un Ponte Per… insieme a varie realtà internazionali, ha portato alla creazione nella piana di Ninive – uno dei luoghi maggiormente colpiti dall’espansione territoriale del gruppo Stato Islamico – di un Consiglio per la pace che comprende cinque comunità religiose, quattro sindaci locali, un consiglio provinciale e quindici organizzazioni della società civile locale.

Questa iniziativa è stata al centro di tre giorni di incontri istituzionali ed eventi pubblici che si sono svolti a Roma da martedì a giovedì, e che hanno permesso alle organizzazioni protagoniste di questo progetto di raccontarlo anche in Italia, lontano dalla guerra ma al centro dei percorsi di migrazione che quel conflitto produce.

L’obiettivo di Niniveh Paths è la promozione del dialogo interreligioso tra le comunità, in vista di un eventuale ritorno delle popolazioni nelle aree liberate dall’occupazione del gruppo Stato Islamico.

È interessante anche comprendere le strategie con le quali questo dialogo si sviluppa, perché offrono una prospettiva non militare per il superamento di una sorta di «conflitto permanente», nel quale l’Iraq si trova almeno dal 2003, dalla cosiddetta «seconda guerra del Golfo». Chi ha elaborato parte di questa strategia è il norvegese Kai Brand Jacobsen, direttore del Dipartimento per la Pace dell’organizzazione internazionale Patrir, sigla che sta per Peace Action, Training and Research Institute of Romania.

L’attività di peacebuilding, in un luogo così fortemente segnato da almeno 13 anni di conflitti, è difficile anche soltanto da immaginare. Quali sono i capisaldi di questo processo?

«È difficile per molti immaginare la pace, quando le immagini che arrivano da Iraq e Siria sono spesso soltanto di guerra e violenza, di esecuzioni e disperazione, ma guardare quello che le persone fanno sul territorio, nei progetti che li coinvolgono a Ninive, è straordinario. I capisaldi su cui si costruisce l’impegno sono il coinvolgimento e la coscienza delle persone di Ninive, le sole persone dell’Iraq o della Siria, che in prima persona possono guidare il processo di pace.

Non c’è niente di strano né in questo né nel fatto che si debba prendere coscienza di questo, perché i problemi che hanno legittimato l’avanzata del Daesh e le azioni che vengono o non vengono compiute per contrastarlo all’interno della società, sono tutte legate all’esclusione e alla corruzione del governo, sostenuta e promossa a vari livelli.

Questi sono problemi che evidentemente non possono essere affrontati a livello militare, ma soltanto a livello pratico dai decisori pubblici, dalle comunità e dalle organizzazioni che compongono il paese e che devono lavorare per costruire relazioni di fiducia per gestire problemi come quelli dei traumi della guerra e per avviare un processo di riconciliazione e collegamento tra le varie comunità. Il progetto di pace Ninive Paths è mirato proprio all’identificazione di questi bisogni per lavorare in modo sempre più forte nella loro gestione».

Parliamo di strategie: il coinvolgimento delle varie comunità locali, lo diceva poco fa, è centrale. Nella costruzione di questo processo, è stato possibile sfruttare reti preesistenti o è stato necessario costruire tutto da zero?

«In realtà è una combinazione tra questi due poli. Ciò che più di tutto ci ha permesso di dare il via a questo progetto a Ninive sono state le relazioni di lungo termine e la fiducia che Un Ponte Per… si è saputa guadagnare con un lavoro di oltre un decennio in progetti di solidarietà e supporto umanitario. Queste relazioni sono centrali per coinvolgere le popolazioni e per gestire le sfide e i problemi legati al processo di peacebuilding. È un lavoro complicato, perché significa affrontare la guerra e al tempo stesso costruire percorsi per quando il conflitto sarà terminato.

Ma è il progetto stesso a essere stato un successo, proprio perché ha costruito, sviluppato e difeso relazioni sociali fondate sull’impegno diretto dei cittadini. Abbiamo lavorato direttamente con il presidente del Consiglio cittadino di Ninive, e dopo la prima fase di discussione è diventato lui stesso uno degli attori centrali del processo di costruzione di rapporti con i leader religiosi, le donne e i giovani, che hanno cominciato a lavorare insieme per promuovere e suggerire che ci sia qualcosa oltre il conflitto, qualcosa che possa dare un futuro alle comunità oltre le divisioni e la guerra.

Tutte queste realtà sono diventate giorno dopo giorno sempre più profondamente coinvolte, lavorando con noi per costruire processi di riconciliazione e creando, passo dopo passo, un rapporto di fiducia.

Insomma, ciò che veramente ci rende orgogliosi del processo è proprio il supporto che le comunità stesse hanno cominciato a dare portando i loro leader a fare peacebuilding con un ruolo sempre più attivo».

L’Iraq in generale, e la piana di Ninive in particolare, sono storicamente un crocevia di culture. Di fronte a un’organizzazione come l’Isis, che ha in mente una società appiattita sulle sue posizioni, è possibile opporre questa diversità riconoscendola come un valore?

«È il caso di sottolineare, come diceva, che Ninive è storicamente il luogo più variegato dell’Iraq, sia in termini religiosi sia in termini culturali, ma questa ricchezza è messa a rischio dal conflitto, che ha portato a migrazioni di milioni di persone. Alcune comunità, come gli Yazidi o i cristiani, sono state costrette a fuggire in blocco, e la loro esistenza è stata messa a serio rischio. Eppure bisogna anche sottolineare che la ragione per cui il Daesh si è sviluppato così tanto e così rapidamente sta nello stesso fallimento dei processi di inclusione in passato.

Molte persone, quando pensano al Daesh, pensano a una forza travolgente e terrificante, crudele, e in effetti le loro azioni sono esattamente così; tuttavia, è importante pensare al Daesh come un processo più che un’organizzazione: le persone che si sono unite al Califfato lo hanno fatto provenendo da luoghi e storie differenti, e già molto tempo prima che il Daesh entrasse in Iraq c’erano leader delle comunità sunnite che si sentivano escluse. In effetti lo erano e lo sono, perché il settarismo politico del governo formato dopo l’intervento del 2003 ha portato all’esclusione di comunità che erano la chiave dell’equilibrio locale, e questa segregazione è stata il motivo principale per cui si sono create le condizioni per l’avanzata del Daesh. All’inizio, in molti hanno offerto il loro supporto al Daesh, non perché fossero d’accordo con loro su qualcosa, ma perché si sentivano totalmente tagliati fuori dalle scelte che riguardavano anche loro stessi.

Ecco perché il nostro approccio al peacebuilding a Ninive si basa sui percorsi di inclusione costruiti dalle comunità stesse, che siano tribali, religiose, etniche o di qualunque altro tipo. Tutto passa attraverso le relazioni».