istock_000069113725_double

Iran, la vittoria dei moderati apre nuove sfide per il presidente Rouhani

A distanza di una settimana dai risultati delle elezioni in Iran, che hanno portato al rinnovo dei 290 seggi del Majis, il Parlamento, e degli 88 membri dell’Assemblea degli esperti, uno degli organi più importanti del sistema istituzionale iraniano, si guarda con curiosità alle possibilità di cambiamento del Paese. Il voto, infatti, ha premiato i moderati del presidente in carica Hassan Rouhani, sostenuti anche dai riformisti e dai cosiddetti “conservatori pragmatici”, mentre il fronte dei “principalisti”, vicini alla Guida suprema Alì Khamenei, ha subito una sconfitta che si riteneva probabile.

Tuttavia, non bisogna immaginare che da un giorno all’altro gli equilibri del Paese possano cambiare in modo radicale, perché una grande fetta del potere rimane nelle mani della Guida suprema e del Consiglio dei guardiani della Rivoluzione, un organo molto potente e molto conservatore che, tra le altre cose, prima del voto aveva bloccato la candidatura di gran parte dei riformisti. Quello che conta, però, è il fattore pragmatico, che attraversa tutti i principali schieramenti: i moderati, i riformisti, i principalisti e i conservatori pragmatici, più che partiti sono “correnti”, che racchiudono idee simili su precise questioni ritenute urgenti in quel momento. La decisione di schierarsi da una parte o dall’altra, allo stesso modo, non è particolarmente esclusiva: alle ultime elezioni diversi candidati erano sostenuti sia dai moderati/riformisti che dai conservatori.

L’unico dato certo, però, è che il presidente Hassan Rouhani ora si trovi in una posizione decisamente più forte, che gli potrebbe consentire di agire sul tema dei diritti umani.

Metà mandato, aspettative dimezzate

Nei primi due anni da presidente, Rouhani si è concentrato sulle trattative per arrivare a un accordo sul programma nucleare iraniano, una sfida probabilmente più importante per la sua amministrazione in termini diplomatici che non per l’elettorato, che infatti, pur premiando il suo schieramento nelle urne, aveva accolto la notizia dell’accordo in modo abbastanza tiepido. Con il dossier nucleare ormai archiviato, o quasi, e di conseguenza la sua principale promessa elettorale mantenuta, Rouhani ora è chiamato a spostare la sua attenzione sul fronte dei diritti umani, un tema che i critici, soprattutto in occidente, ritengono sia stato nascosto sotto il tappeto come la polvere, pur facendo parte delle sue promesse elettorali, e il fatto che le condanne a morte non si siano arrestate sembra esserne la prova. Per esempio, la settimana a Teheran si è aperta proprio con una condanna alla pena capitale, quella comminata al miliardario e imprenditore Babak Zanjani, ritenuto colpevole di corruzione e appropriazione indebita.

Esecuzioni in aumento

Secondo le organizzazioni che si occupano di diritti umani, l’applicazione della pena di morte in Iran non solo non è ridotta dalla fine della presidenza Ahmadinejad ad oggi, ma addirittura è in aumento, sia per quanto riguarda le azioni individuali che per quelle collettive.

Mohammad-Javad Larijani, il capo dell’Alto consiglio per i diritti umani, un ente statale iraniano, racconta spesso degli sforzi sostenuti dalla sua organizzazione per portare all’approvazione in Parlamento di una nuova legge che dovrebbe cancellare l’80% delle esecuzioni capitali. Tuttavia non si trovano segni tangibili di questa intenzione negli atti dei lavori parlamentari.

In base ai rapporti di Amnesty International, l’Iran rimane il Paese con il maggior numero di esecuzioni al mondo subito dopo la Cina. Nel 2014 sono state impiccate almeno 753 persone, e i dati del primo semestre del 2015 mostrano addirittura un aumento, con circa 700 esecuzioni stimate da gennaio a giugno.

L’opinione è una colpa

Mentre i dati sulle esecuzioni capitali sono abbastanza chiari, non lo sono per nulla quelli delle persone detenute su basi politiche, per le loro convinzioni o per l’attivismo civile. Tra questi, uno dei casi più noti negli ultimi mesi è quello del regista curdo iraniano Keywan Karimi, condannato senza appello a un anno di prigione, 223 frustate e una multa di 20 milioni di Rial a causa dei contenuti dei suoi film, giudicati “opere di propaganda antigovernativa”. La mobilitazione internazionale dei mesi scorsi è riuscita a influire solo sugli anni comminati, che erano sei, per i contenuti del documentario Writing on the City, dedicato alle scritte sui muri di Teheran dal 1979 a oggi. Inoltre, ci sono almeno 18 donne in carcere per reati d’opinione, tra cui Narges Mohammadi, una giornalista e portavoce del Centre for Human Rights Defenders.

Le minoranze religiose

Un altro fronte sul quale non ci sono stati finora passi avanti è quello della libertà religiosa. Va detto che, a differenza di paesi come l’Arabia Saudita, l’Iran ha una ricca presenza di minoranze religiose, e alcune di queste hanno una presenza piuttosto forte. Cristiani, ebrei e zoroastriani sono minoranze riconosciute e accettate, dotate anche di rappresentanza parlamentare.

Per contro, minoranze religiose come quella dei Bahá’í o quella del dervisci Gonabadi sono perseguitate in modo molto grave: infatti sono almeno 100 i fedeli di questi culti incarcerati solo per la loro appartenenza religiosa, e ci sono testimonianze di molti Bahá’í espulsi dalle università e in generale dal mondo dell’educazione con l’unica colpa di aver pubblicamente affermato la propria fede.

Durante la campagna elettorale del 2013 Rouhani aveva promesso di migliorare la condizione delle minoranze religiose e di quelle etniche, come i curdi, gli armeni e le popolazioni arabe sul territorio, e una volta eletto aveva creato un nuovo ufficio, quello dell’assistente speciale per i diritti delle minoranze, affidato ad Ali Younesi. Eppure, le minoranze continuano a subire discriminazioni pesanti ed ineguaglianze in aree come l’accesso all’educazione, allo stato sociale e al riconoscimento della propria lingua madre come riconosciuta e insegnata a scuola.

Gesti di rottura

La settimana però non si è aperta soltanto con nuove condanne, ma anche con un gesto simbolico avvenuto ieri durante un comizio: il presidente Rouhani ha pubblicamente ringraziato l’ex presidente Khatami, alla guida del paese dal 1997 al 2005, per il suo appoggio durante le ultime elezioni. Con queste parole Rouhani ha sfidato una legge che vieta di citare o mostrare sui media immagini dell’ex presidente, considerato un nemico dello Stato per aver appoggiato la “Rivoluzione Verde” del 2009 contro i presunti brogli e la rielezione di Ahmadinejad. Inoltre, sempre nella giornata di ieri il presidente Rouhani ha definito lo stesso divieto «una buffonata».

Si tratta di gesti che hanno soltanto valore simbolico, ma che potrebbero anche essere la prova di una trasformazione in corso nei rapporti di forza tra le numerose istituzioni che compongono la struttura statale iraniana.

Le aspettative nei confronti di Rouhani sono molte, e questo sembra essere il momento di promuovere una decisiva accelerazione. Sarà possibile farlo?

Images ©iStockphoto.com/BornaMir