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La fotografia di Oxfam sulla povertà nel mondo

Nel 2015, secondo l’ultimo rapporto di Oxfam – confederazione di 17 organizzazioni di paesi diversi che lottano contro la povertà e l’ingiustizia nel mondo – le 62 persone più ricche hanno accumulato la stessa capacità economica della metà più povera della popolazione mondiale, 3,6 miliardi di persone. In Italia l’1% dei più agiati possiede il 23,4% della ricchezza nazionale netta. ll documento è uscito pochi giorni prima del meeting internazionale World Economic Forum di Davos, al quale l’Ong intende chiedere di eliminare i paradisi fiscali, una delle principali cause di disuguaglianze e impoverimento degli stati. Ne parliamo con Mikhail Maslennikov, di Oxfam Italia, che ha redatto parte del rapporto.

Come siete arrivati a questa rilevazione?

«Il rapporto ha una dimensione globale e le analisi sono macroregionali, ma abbiamo cercato di affiancarlo con una rielaborazione per il contesto italiano, relativo alla distribuzione di ricchezza e surplus di reddito registrati negli ultimi 24 anni nel Bel Paese. Abbiamo analizzato gli aspetti e le cause strutturali che hanno portato a questa situazione di allarme e preoccupazione, focalizzando la nostra attenzione sulle scelte in materia di politiche fiscali negli ultimi 30 anni e sulla contestualizzazione delle politiche economiche. Abbiamo anche elaborato delle proposte economiche rivolte ai governi di tutto il mondo, tra cui quello italiano, in cui chiediamo un intervento in materia fiscale e il contrasto all’evasione e elusione fiscale da parte di super ricchi e grandi multinazionali».

Quali sono le cause strutturali di questo problema?

«Per quanto riguarda la dimensione fiscale e gli interventi in materia di tassazione, sia su scala globale che nazionale, negli ultimi anni si sono registrati interventi di natura regressiva o quantomeno una poca progressività: pensiamo soprattutto alle aliquote fiscali più alte. In Italia chi guadagna 80 mila euro e chi ne guadagna 8 milioni, paga le stesse aliquote effettive sui propri redditi, situazione che non si registra in altri paesi. Se guardiamo l’intervento in tassazione nei confronti delle fasce più deboli della popolazione su scala europea continentale, notiamo che l’Italia è classificata in 22 esima posizione su 28 paesi. La Slovenia, economia meno florida della nostra, è in prima posizione in termini di effetti ridistribuitivi e di politiche fiscali, ovvero il reddito non tassato è molto più livellante delle disuguaglianze rispetto all’Italia».

Ma il divario tra ricchezza e povertà sta aumentando?

«No, se guardiamo la distribuzione dei redditi su scala globale non sta crescendo, anzi, è in lieve calo. Quello che noi registriamo, però, è il crescente livelli di disuguaglianza tra i vari paesi e al loro interno. Oltre a interventi di politiche fiscali, c’è un sistema economico e scelte politiche collegate che hanno prodotto deregulation e una visione secondo cui la crescita può essere garantita da un settore privato con effetti ridistribuitivi per tutti. Ma questo modello è fallimentare e i livelli disuguaglianza che noi riportiamo ne sono un sintomo: è evidente come abbia portato a domini monopolistici e a un disinvestimento graduale dell’intervento pubblico nelle politiche occupazionali, nel welfare e nei servizi pubblici essenziali, indispensabili per contrastare la povertà e la disuguaglianza economica. Quest’ultima ha avuto effetti significativi sulla crescita, che non è stata né duratura, né sostenibile, né tantomeno inclusiva. L’Ocse stima che l’Italia abbia perso 8 punti di Pil percentuale per questo motivo: più c’è incertezza sul futuro più c’è tendenza al risparmio e non ai consumi».

Una critica che abbiamo letto è quella relativa alla vostra idea di economia: il Telegraph parla di un’impossibile situazione a somma zero, dalla quale ridistribuire le ricchezze a tutti. Che ne pensa?

«Quella della somma zero è una critica che è stata spesso sollevata nei confronti dei nostri studi, anche dall’Institute for Economic Studies britannico: spesso si riferiscono al fatto che nelle stime della ricchezza netta delle famiglie che noi proponiamo, prendiamo in considerazione il valore dei patrimoni mobiliari e immobiliari, finanziari e non, sottraendo le passività: se guardiamo al 10% più povero della popolazione rischiamo di trovare persone con redditi medi ma che si ritrovano in questo decile perché sono indebitate. Oxfam chiaramente prende in considerazione questa analisi e effettua dei test di robustezza della distribuzione del reddito su scala globale escludendo le passività del primo decile. Sono critiche a cui sappiamo rispondere perché tutti inostri dati sono istituzionali e la metodologia è in chiaro per tutti i commentatori economici. Ricordo che sono dati che arrivano da Credit Suisse, il più autorevole estimatore della ricchezza netta dei cittadini del mondo che si basa su indagini statistiche e sui bilanci delle famiglie».

Una vostra proposta operativa per colpire le disuguaglianze è quella di agire sui paradisi fiscali

«Uno degli interventi che diamo al Governo italiano è quello di porre fine all’era dei paradisi fiscali (territori o giurisdizioni) che applicano aliquote e regimi fiscali privilegiati sui redditi dei non residenti e coprono di opacità e segretezza i proprietari effettivi dei beni. Si stima che oggi 7.600 miliardi di dollari siano occultati a cittadini e governi nei paradisi fiscali. Se fossero recuperati ci sarebbero a disposizione 190 miliardi di dollari. Inoltre i paradisi fiscali rappresentano anche un pilastro importante nella pianificazione aggressiva da parte delle grandi multinazionali: punti d’approdo per profitti trasferiti da paesi in cui le aziende conducono effettivamente la propria attività economica, ma dove non pagano tasse. Nel 2012 le più grandi multinazionali statunitensi hanno dichiarato 80 miliardi di dollari di profitti nelle Bermuda, dove hanno un volume di vendite dello 0,3 % e il costo del lavoro si aggira sul 0,01%. In Italia nel 2012 le grandi multinazionali hanno eluso 4,2 miliardi di mancato gettito per il nostro erario. Un segnale di disallinamento tra l’attività economica e i profitti dichiarati: questo significa depauperare le casse pubbliche».

Foto via Pixabay