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Rosa confetto per l’occasione

E pensare che in un tempo non lontano, a cavallo fra XIX e XX secolo, veniva chiamata la “Gerusalemme dell’estremo oriente”, tanto era stata marcata l’opera di evangelizzazione di presbiteriani e cattolici in particolare. Pyongyang, a partire dalla divisione in due della penisola nel 1948, è la capitale della Corea del Nord, ed oggi di quegli anni di templi e campanili rimane in pratica nulla. Un pugno di chiese cristiane, utilizzate per lo più per mostrare ai pochi stranieri che entrano nel paese che la libertà religiosa viene garantita, mentre la realtà parla di violenze, campi di lavoro forzato, esecuzioni. I cristiani sarebbero circa l’1% dei 21 milioni di coreani, la maggior parte protestanti, con una rappresentanza ortodossa figlia della dominazione sovietica (ancora nel 2006 il patriarca Kirill, allora metropolita di Smolensk, inaugurava nella capitale una chiesa ad uso e consumo dei pochi uomini di affari russi presenti nel paese), e una presenza cattolica di 4 o 5 mila fedeli. Nel 2015 per il tredicesimo anno consecutivo la Corea del Nord guida la triste classifica delle nazioni responsabili delle maggiori persecuzioni nei confronti dei cristiani: secondo quanto riportato dagli analisti di Open Doors, organizzazione cristiana interdenominazionale, sarebbero fra i 50 e i 70 mila i credenti rinchiusi negli orribili campi di lavoro su un totale presunto di oltre 200 mila prigionieri, costretti a svolgere mansioni spossanti e a sopravvivere in condizioni inumane. Così testimoniano i pochissimi che da quell’inferno sono riusciti a sfuggire, come Shin Dong-hyuk, che intervistammo da queste colonne lo scorso anno, ospite della manifestazione Torino Spiritualità, in occasione della pubblicazione in Italia, per Codice Edizioni, del libro “Fuga dal campo 14”, sconvolgente racconto degli orrori che donne, uomini e bambini sono costretti a sopportare per esser stati considerati pericolosi per la società o per il regime: a questa categoria appartengono anche i credenti, colpevoli di sfuggire al culto della personalità della famiglia Kim.

Hanno richiamato dal meritato riposo della pensione anche lei, Ri Chu-Hee, 72 anni, oltre 40 dei quali spesi ad annunciare ai suoi connazionali e al mondo le grandi imprese della dinastia, a partire dal capostipite Kim II Sung, oggi “presidente eterno” della nazione, passando per il figlio, il “caro leader” Kim Jong-il, fino ad accompagnare i primi passi sulla scena pubblica del rampollo, il terzogenito Kim Jong-un, attuale dittatore supremo e spietato della Corea del Nord.

A raccontare le gesta dei padri della nazione dagli schermi dell’unico canale televisivo sempre lei, Ri Chu-Hee. E così è stato anche mercoledì 6 gennaio: voce ferma e fiera, tradizionale hanbok, questa volta rosa confetto a manifestare l’entusiasmo per ciò che si accingeva ad annunciare. La Corea del Nord aveva appena concluso con successo l’ennesimo esperimento nucleare. Questa volta alzando il tiro: non solo bomba atomica, ma la ben più potente bomba ad idrogeno, seppur permangano vari dubbi sull’effettiva composizione dell’ordigno.

Al di là della tipologia tecnica rimane il dato oggettivo di una notizia che porta ancora una volta in primo piano l’incubo dell’atomica, in mano ad una dittatura spietata le cui azioni sfuggono ad una possibile lettura di raziocinio.

Paese che alle nostre latitudini tendiamo spesso a considerare poco, anche perché poco, pochissimo, trapela dalle strettissime maglie della censura. Kwangmyong è il nome di una rete informatica tutta interna alla Corea, che non consente l’accesso ai tradizionali domini internet utilizzati in tutto il mondo. Una particolarità che ne fa uno dei rari paesi senza accesso alle informazioni globali. La popolazione è quindi isolata, convinta dalla martellante propaganda di regime di vivere sotto costante minaccia di invasione, giapponese, sud coreana o statunitense a seconda delle stagioni e degli umori.

Eppure, se un’esile speranza di cambiamento cui aggrapparsi esiste, lo si deve con molta probabilità proprio all’ostinata caparbietà delle denominazioni cristiane.

Solo un paio di mesi fa, a novembre,una delegazione di 150 leader religiosi di diverse comunità in rappresentanza delle sette principali religioni della Corea del Sud, riunite sotto l’egida della “Conferenza coreana delle Religioni per la Pace” (Kcrp), ha oltrepassato la cortina di bambù e raggiunto il Monte Kumgang. Nel luogo sorge il noto tempio buddista Singyesa, fondato nel 519, distrutto durante la guerra di Corea (1950-1953) dai bombardamenti americani e ricostruito nel 2004 grazie ad un progetto tra le due Coree. In questo luogo simbolico si tengono i rari incontri tra delegazioni religiose del Nord e del Sud.

La visita, informava la Conferenza in una nota inviata all’agenzia stampa Fides, aveva lo scopo di «pregare insieme per la pace e la stabilità nella penisola coreana». Nei giorni precedenti era stata l’Associazione dei preti cattolici per la Giustizia (Cpaj) a celebrare una messa nella capitale nordcoreana, mentre delegati del “Forum ecumenico per la Corea”, avviato dal Consiglio ecumenico delle chiese, visitava gli unici due luoghi di culto cristiani presenti a Pyongyang oltre la già citata chiesa ortodossa: la chiesa cattolica e quella protestante di Changchun. E ad ottobre la capitale aveva ospitato un meeting coordinato dalla copresidente del Consiglio Ecumenico delle chiese, la pastora Chang Sang della Chiesa presbiteriana sudcoreana insieme a Peter Prove, direttore della commissione delle chiese per gli affari internazionali. Un forum che si ripete annualmente dal 2006 per tenere alta l’attenzione del resto del mondo sulla questione coreana.

Ma è già dal 1989 che le due federazioni delle chiese ogni anno sottoscrivono una preghiera comune volta alla riconciliazione e alla riunificazione della nazione.

E quanto la questione coreana stia a cuore al Consiglio ecumenico delle chiese lo si percepisce anche da un altra assise, a settembre a Seul, che ha visto la presenza di 120 delegati da tutto il pianeta, i cui lavori si sono conclusi con la lettura di un documento comune che recitava: «la divisione fra le due coree e i costi umani ad essa connessi contraddicono gli auspici di Dio relativi alla pienezza della vita; si tratta di un peccato contro Dio e contro gli uomini. La chiesa è chiamata a trasformare se stessa e a mettersi in gioco per segnare una via nuova».

C’è chi non si arrende, e tenta con le forze a disposizione di far alzare lo sguardo ad una popolazione addomesticata, alienata. Fra mille difficoltà continuano le ostinate opere di tanti pastori presbiteriani che ogni anno visitano il paese per portare conforto, cibo, parole di speranza. Solo a dicembre ci è giunta la notizia della condanna ai lavori forzati a vita di un pastore presbiteriano canadese, accusato di attività sovversive e propaganda antinazionale. Il percorso è in salita, una salita ripida. Ma sotto la spessa coltre dell’oppressione non si esaurisce l’inesauribile lavorio degli uomini di fede e speranza.

Foto “Mansudae Grand Monument 08” di NicorOpera propria. Con licenza CC BY-SA 3.0 tramite Wikimedia Commons.