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Yarmouk – Lampedusa sola andata

Di Alberto Mallardo

Ci sono luoghi che conosciamo solo per nome. Storie che catturano solo di sfuggita la nostra attenzione. Volti che sfumano dopo una breve apparizione in televisione. Tra questi forse c’è il viso di Ibrahim, 27 anni, nato nel campo profughi di Yarmouk in Siria, proprio come suo padre.

Il campo profughi di Yarmouk si trova a otto chilometri a sud del centro di Damasco e può essere definito la “capitale” della diaspora palestinese. Il campo fu creato dalle autorità siriane nel 1957 come campo non ufficiale per coloro che erano fuggiti o erano stati fatti sfollare durante la guerra arabo-israeliana del 1948-49. Nel giro di pochi anni, il campo è divenuto uno dei più grandi del Medio Oriente e si è trasformato in uno dei quartieri più popolosi e importanti della capitale siriana, Damasco. Prima dell’inizio del conflitto in Siria, nel marzo del 2011, ospitava 150mila persone, tra cui molti siriani.

Ibrahim, 27 anni, studiò all’università per due anni come elettricista, ottenendo un diploma con il quale lavorò anche a Damasco e in altre città della Siria.

Oggi è giunto a Lampedusa e ci racconta: «A Yarmouk la vita era molto semplice. Noi palestinesi venivamo trattati come i siriani e in generale non c’erano problemi di sorta con le tante altre persone che vivevano lì. Io e la mia famiglia vivevamo in case normali ed è strano pensare che fosse considerato un campo profughi visto che era una vera e propria città con tante case piccoline. In effetti, prima dell’84 c’erano solo tende ma piano piano sono diventate delle case e si è trasformato in una specie di quartiere popolare. In città potevi trovare scuole, ospedali e un’università. Il tutto era sostenuto direttamente dalle Nazioni Unite che ogni due mesi inviavano aiuti e gestivano servizi sanitari, sociali ed educativi all’interno della medina».

Continua Ibrahim: «Fin da bambino non ho mai notato grandi differenze rispetto alla popolazione locale. L’unico problema era di non poter uscire dal paese, dalla Siria. Non c’era nessun rapporto con la Palestina; così noi non potevamo andare e loro non potevano venire».

Purtroppo, la situazione negli ultimi anni è peggiorata rapidamente. Gli ultimi cinque anni di guerra civile in Siria hanno infatti devastato Yarmouk, pretendendo un tributo pesante dai suoi abitanti palestinesi. I combattenti ribelli hanno assoggettato parti del campo e il regime di Bashar al-Assad lo ha assediato per mesi.

Ibrahim scelse di partire prima verso la Giordania, poi in direzione del Sudan e poi alla volta dell’Europa.

Decise di affrontare quel viaggio che l’avrebbe portato nel mezzo del deserto più grande nel mondo, alla deriva oltre le coste libiche e poi sempre più all’interno, nella pancia del mostro occidentale, fino a quando, se tutto fosse andato bene, avrebbe poi raggiunto le celebri capitali nordeuropee. Un viaggio interminabile. Un viaggio fatto di ostacoli e imprevisti. Lunghe soste, interminabili periodi di attesa e poi marce e trasferimenti forzati. La necessità di nascondersi e la paura di finire in una rete le cui maglie sono composte da militari al soldo di autorità, forze di polizia corrotte, carceri, centri d’identificazione, burocrazie, visti, timbri, intimidazioni e razzismo.

Ibrahim racconta di aver passato passò più di cinque giorni nel deserto. Mostra le foto. Un piccolo furgoncino al cui interno viaggiavano stipate una trentina di persone. Tutte insieme, quasi abbracciate l’una all’altra. Uomini, donne e bambini. Arrivato in Libia venne rinchiuso in un capannone insieme ai suoi compagni di viaggio. Per quaranta giorni circa, visse in condizioni terribili sotto la costante minaccia dei trafficanti.

Mangiavano “maccaroni”, pasta, «ma non la pasta che mangiamo noi in Italia», ci tiene a specificare, con un sorriso di disappunto. Ibrahim continua, raccontandoci dei trafficanti: «avevano le armi quindi non potevi discutere di nulla. Se qualcuno provava a dire qualcosa, qualsiasi cosa, veniva picchiato, se non peggio». Qualsiasi pretesto poteva farti finire con una pistola puntata alla tempia. Anche in spiaggia prima di imbarcarsi sul gommone dicevano: «o sali o muori».

In molti, infatti, rimasero pietrificati alla vista del gommone che li avrebbe dovuti condurre in Italia. Era piccolo e malconcio ma a quel punto o si parte o si muore, non si può più tornare indietro. Una volta salpati dalla Libia, Ibrahim ed i suoi compagni di viaggio si resero presto conto che nessuno sapeva portare il gommone.

Dopo 16 ore in mare arrivò una nave militare italiana. Finalmente erano salvi!

Ancora una volta riportiamo una storia incredibile che ci parla di situazioni ed eventi apparentemente lontani. In realtà confrontandoci con Ibrahim abbiamo conosciuto una storia contemporanea, la nostra storia. Le persone che abbiamo di fronte hanno superato prove e difficoltà indescrivibili. Ciò nonostante solamente attraverso i loro racconti possiamo provare a comprendere quegli eventi, quelle situazioni e ci rendiamo conto di quanta importanza hanno queste storie.

Foto Rbe