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Lo stupore del “guaritore ferito”

Il mare e il porto di Genova, la verde collina di Voltri, il rapido passaggio dal caldo estivo alle prime piogge autunnali, una piccola rimpatriata tra colleghi ma soprattutto tra amici dopo un tempo di separazione – chi per l’anno di studi all’estero, chi per il periodo di prova pastorale – e l’incontro con un pastore dalla grande esperienza e dal tratto amichevole e tipicamente partenopeo. Questa è la cornice che ha visto svolgersi anche quest’anno il corso intensivo di CPE – Clinical Pastoral Education – dal 6 settembre al 2 ottobre 2015 presso l’Ospedale Evangelico Internazionale di Genova-Voltri. Per un mese quattro studenti in formazione verso il pastorato – i battisti Andrea Aprile e Vittorio De Palo, i valdesi Marco Casci e il sottoscritto – e la neo-consacrata Eleonora Natoli, metodista, hanno condiviso tempo, spazi, esperienze e storie sotto la cura e la supervisione del pastore Sergio Manna. Più che condividere abbiamo imparato molto: l’ascolto empatico attraverso le molte visite ai e alle pazienti dei diversi reparti, le ore di didattica curate dal pastore Manna e dal personale medico ospedaliero, i momenti di condivisione e di preghiera.

Per capire meglio cosa sia il corso di Cpe e dipingerne l’importanza formativa unica, può essere utile descrivere una giornata tipo del corso. Tutto inizia con il culto del mattino nella cappella dell’ospedale, un momento di preghiera ecumenico e aperto a tutti, con la presenza costante di alcuni membri del personale ospedaliero; un momento privilegiato dove la predicazione a turno di noi “cappellani tirocinanti” faceva iniziare la giornata in sintonia con la Parola di Dio, spesso lasciandoci coinvolgere e stimolare da quanto si viveva nelle visite e nella didattica. Subito dopo, indossato il camice bianco, iniziano le visite nei reparti per circa un paio d’ore: e qui ci si allena nell’arte dell’ascolto, dell’esplorazione emotiva e spirituale della persona che si ha davanti e che vive un momento fragile e particolare della vita, che si tratti di una giovane mamma in Neonatologia, di un anziano in Chirurgia o in Medicina Generale, o di un giovane studente con una frattura in Ortopedia. A metà mattinata ci si ritrova in aula didattica per l’aspetto teorico del corso: la discussione dei famosi verbatim delle visite, gli aspetti teologici della malattia, l’accompagnamento verso la fine della vita, la diagnosi spirituale e le risorse spirituali. Non è certo una passeggiata affrontare temi come questi, per cui la pausa pranzo – in mensa, insieme al personale – segna un momento di respiro e di breve riposo. Perché nel primissimo pomeriggio per un altro paio d’ore tocca al personale medico istruirci: ad esempio sulla condizione di vita dei pazienti affetti da derivazioni urinarie, il ricovero sociale e le sue problematiche, questioni bioetiche in tema di procreazione umana, il paziente traumatizzato, professione medica e burn-out (il che non esclude la “professione” pastorale). Sono soltanto alcune delle lezioni di cui abbiamo beneficiato. Dopo la didattica segue l’ultimo giro di visite nei reparti.

Si arriva così, stanchi e spesso provati, al riposo prima di cena, dove i colloqui, le lezioni, la predicazione e gli incontri della giornata riemergono pian piano e fanno riflettere. E come succedeva in Facoltà, tra il salottino, la terrazza e il refettorio, c’è tempo per la condivisione in amicizia e in fraternità, e c’è anche tempo per un film o un gioco da tavola insieme. Inutile dire quanto l’esperienza del Cpe sia arricchente e preziosa nell’ambito della teologia pratica e della cura pastorale, nel momento tanto atteso quanto delicato del passaggio dalla Facoltà alla vita di chiesa e quindi al ministero vero e proprio. Una cosa che colpisce è come, nonostante il contesto clinico ed ospedaliero, vengano alla luce temi grandi e pesanti legati alla vita, alla fede, alla morte, e come in tutto ciò la Parola di Dio ci accompagni, ci interroghi, ci consoli. Non si torna a casa uguali a come si è arrivati al Cpe: è una constatazione più che un augurio, perché un corso di tale portata è davvero una miniera di opportunità e di contenuti per chiunque viva il ministero della visita o dell’ascolto degli altri, ed è un bene che ai futuri pastori e pastore venga chiesto questo mese, tanto impegnativo quanto arricchente. Un grazie particolare va alla presidente, al personale e alla direzione dell’Ospedale Evangelico Internazionale di Voltri, che solo per la seconda volta ospitava il Cpe; medici e infermieri hanno accolto la figura dei cappellani tirocinanti in modo caloroso, non senza piccole incomprensioni, ma sicuramente con curiosità e professionalità.

La presenza di un cappellano tirocinante durante un intervento chirurgico, e quindi la possibilità di accompagnare spiritualmente un paziente in un momento così stressante e delicato, è solo una delle prove di questa collaborazione. Come lo è stata la domanda di diversi medici o infermieri: «Ma dopo questo mese, chi di voi resterà qui come cappellano?». E ovviamente un grazie particolare al supervisor Sergio Manna, con la sua magistrale esperienza clinica e il suo esserci ogni giorno, fraterno e spontaneo, prova che l’amicizia e il sostegno tra futuri e presenti colleghi sono autentiche benedizioni. Paolo scrive che «quando sono debole, è allora che sono forte» (2 Cor 12,10). E in un certo senso C. G. Jung ci offre una rilettura di questo versetto quando parla del “guaritore ferito”: una delle perle del Cpe è proprio la consapevolezza di non essere perfetti e di avere anche noi le nostre ferite. Tale consapevolezza si fa stupore e gratitudine quando si sperimenta, sulla propria pelle, che proprio attraverso le nostre ferite e i nostri limiti Dio può parlare ancora oggi alle donne e agli uomini che incontriamo sul nostro cammino.