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Una fragile tregua

Prove di tregua in Sud Sudan. Le parti che stanno combattendo una sanguinosa guerra civile oramai da due anni hanno siglato lo scorso 26 agosto una dichiarazione congiunta, a seguito di forti pressioni internazionali, dell’Onu in primis, che dovrebbe portare ad una progressiva smilitarizzazione delle città. Nonostante ciò appare molto traballante ed effimera la road map firmata da Salva Kiir, presidente del giovanissimo Stato, indipendente dal 2011, e dal leader dell’opposizione Riek Machar, ex vicepresidente proprio di Kiir.

I due rappresentano i principali gruppi etnici presenti nel Paese, i Dinka e i Nuer, che sostanzialmente si dovrebbero spartire i principali ruoli di comando, cercando un equilibrio fra le differenti tensioni. La tregua appare assai fragile e di difficile mantenimento, non tanto per i capricci dei due leader, che hanno recepito le pressioni internazionali, inghiottendo controvoglia un boccone necessario, quanto per la difficoltà che essi hanno nel gestire i propri seguaci.

Un ruolo importante in questa situazione lo hanno giocato, e continuano a farlo, le chiese. In questi giorni James Oyet Latansio, segretario generale del Consiglio delle chiese del Sud Sudan è stato ospite a Ginevra di una tavola rotonda sul conflitto, coordinata da Nigussu Legesse, il responsabile esecutivo dei progetti per l’Africa del Cec, il Consiglio ecumenico delle chiese. E’ stato ricordato come in questi mesi sono stati numerosi gli appelli dei rappresentanti delle varie confessioni perché si ponesse fine agli scontri, e vari sono stati anche gli incontri ecumenici per far sentire congiuntamente, con forza, la propria voce.

Solo nel 2015 vi è stata una prima consultazione ad aprile ad Addis Abeba in Etiopia fra i venticinque rappresentanti delle confessioni presenti in Sud Sudan, seguita da un secondo incontro, questa volta a Kigali in Rwanda, in giugno, al termine del quale è stato letto un appello congiunto che esortava le parti in causa a « fermare subito questa guerra insensata e soccorrere le popolazioni colpite, prima di pensare alla spartizione di posti di potere».

Le chiese sudanesi si candidano a diventare una sorta di luogo neutro in cui posare le armi e ragionare sul serio sul futuro, evitando di farlo sulle spalle di una popolazione stremata. Latansio nell’occasione ha voluto ricordare e ringraziare «le numerose organizzazioni internazionali, Cec in testa, che si stanno adoperando a vari livelli e con differenti modalità per la gestione di una situazione di crisi oramai incancrenita, e per tentare di offrire spiragli di luce in fondo al tunnel della violenza cieca».

Appelli cui il presidente Kiir in realtà non pare dare troppo seguito, preoccupato più dal rischio di un isolamento internazionale e da un conseguente calo di denaro derivante dal principale bene esportato dalla nazione, il petrolio, che da ragioni di tipo umanitario e solidaristico. Le chiese hanno però un forte seguito fra la popolazione, che vede in loro un appiglio di speranza, e di questo Kiir dovrà tener conto per mantenere un potere fondato su basi di argilla.

Foto “The scale of the problem Jamam refugee camp from the air (6972523516)” by DFID – UK Department for International DevelopmentThe scale of the problem: Jamam refugee camp from the air Uploaded by russavia. Licensed under CC BY-SA 2.0 via Commons.