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Pregando insieme dall’Albania: la pace è sempre possibile

Le foto dell’articolo sono della Comunità di Sant’Egidio

Su invito di papa Giovanni Paolo II, il 27 ottobre 1986 sessantadue capi religiosi provenienti da tutto il mondo convennero ad Assisi per una preghiera interconfessionale in favore della pace mondiale. Da allora, a proclamarsi erede dello «Spirito di Assisi» è la Comunità di Sant’Egidio, un’«associazione internazionale di fedeli» nata nel 1968 sull’onda dell’impegno di parte laica rilanciato dal Concilio Vaticano II. Avvalendosi della sua presenza operativa in settanta paesi del continente, a partire da quel fatidico 1986 Sant’Egidio organizza ogni anno una conferenza internazionale sui temi della pace e del dialogo interreligioso. L’incontro del 2015 – il ventottesimo, poiché nel 2000, anno del Giubileo, la conferenza non si tenne – si è svolto dal 6 all’8 settembre scorso a Tirana, nel ventesimo anniversario della fine dell’ultima guerra balcanica.

La pace religiosa in Albania
Rimasta fuori da progetto federale di Tito, la piccola Albania non ha conosciuto i conflitti etnici e religiosi che accompagnarono la dissoluzione dell’ex Jugoslavia, ma ha sofferto più di altri stati della regione le contraddizioni di una transizione politica ed economica che ancora oggi sembra non avere fine. Nonostante la democrazia albanese sia sostanzialmente un cantiere aperto, l’avvento al governo del celebre ex sindaco di Tirana Edi Rama (2013) e la concessione da parte del Consiglio europeo dello status di paese candidato all’ingresso nell’Unione europea (2014) hanno fornito al paese una nuova immagine internazionale: anzitutto dalla vicina Italia, sono sempre più numerosi i giornalisti che atterrano in questo comodo oriente sotto casa per raccontarne il «miracolo» di sviluppo.

A seguito della visita di papa Francesco (21 settembre 2014, primo viaggio europeo del pontefice), l’Albania è poi assurta a terra simbolo del dialogo interreligioso. In effetti, nel corso dei secoli, le comunità albanesi che nell’asprezza delle loro montagne seppero conservare un’unità linguistica e culturale avevano accolto senza particolari resistenze le religioni di Roma, Bisanzio e Costantinopoli; con la fine dell’Impero Ottomano i patrioti che proclamarono lo Stato albanese (1912) si affrettarono però a sminuire la ricchezza di questo stratificato patrimonio religioso, nel nome di un’unità etnica utile al risorgimento nazionale. Un’idea, quella del primato del sangue su Dio, che nel secondo dopoguerra fu volentieri recuperata dal regime nazional-comunista di Enver Hoxha: se nel 1945 il 70% degli albanesi si professava di fede musulmana, dopo un ventennio di brutali repressioni il dittatore albanese era lieto di proclamare la nascita della «prima ateocrazia del mondo» (1967).

Tuttavia, più che estirpare le religioni dal cuore degli albanesi, Hoxha aveva cercato di sostituirvi – debitamente storpiato – il risorgimentale culto dell’etnia, ponendosi, in qualità di Padre della Nazione, al vertice di una nuova religione atea. A un quarto di secolo dalla caduta del regime l’operazione non sembra essergli riuscita: stando ai numeri di un seppur contestato censimento svoltosi nel 2011, oggi il 57% dei cittadini albanesi continua a dichiararsi di fede islamica, il 2% bektashi, il 10% cattolico, il 7% ortodosso e lo 0,1% cristiano evangelico, mentre solo il 2,5% si definisce ateo.

La pace interreligiosa vigente nel paese – un unicum nel panorama balcanico – la recente intuizione politica di papa Francesco volta a individuare un «modello Albania» da contrapporre ad ogni estremismo religioso, ma anche la ritrovata centralità della regione, rotta e percorso di nuove migrazione globali, sono stati gli ingredienti della ventottesima Conferenza internazionale di Sant’Egidio, realizzata in collaborazione con la Conferenza episcopale albanese, la Chiesa ortodossa autocefala d’Albania e il governo della Repubblica d’Albania.

Per due giorni consecutivi, la provinciale Tirana si è trasformata in polis d’incontro per oltre 400 leader religiosi provenienti da 60 paesi del mondo: tra la solenne cerimonia d’inaugurazione ospitata dal Palazzo dei Congressi – l’edificio in cui si riunivano i membri del Partito del Lavoro Albanese – e l’accensione dei ceri della pace di fronte al mausoleo piramidale del dittatore, si sono susseguiti ventisei panel di discussione ecumenica su attualissime tematiche planetarie: globalizzazione e migrazioni, guerre e ridistribuzione della ricchezza, politica e politiche ambientali. Personalità politiche e intellettuali di rilievo non hanno fatto mancare la loro partecipazione laica: tra gli italiani, oltre al ministro Orlando, il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni, lo storico Roberto Morozzo della Rocca, l’ex presidente della Commissione Romano Prodi.

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Un valdese a Tirana
A rappresentare la Chiesa valdese, a Tirana c’era il pastore Eugenio Bernardini. Il moderatore della Tavola è intervenuto la mattina di lunedì 7 settembre, prendendo parte al panel numero 6 della manifestazione: «Una nuova alleanza tra umanità e ambiente» (per il video integrale clicca qui). Allo stesso tavolo, collocato nella sontuosa sala conferenze dell’hotel Rogner, erano chiamati il vescovo evangelico Markus Dröge, il metropolita ortodosso Athenagoras, il rabbino Abraham Skorka, lo studioso Leopoldo Sandonà e il ministro della Giustizia Andrea Orlando. Il pastore Bernardini ha esordito ricordando la recente enciclica di Papa Francesco: «Di Laudato Si’, la prima enciclica in lingua volgare, ovvero nella lingua dei fedeli, mi ha colpito la risonanza di parole conosciute». Il parallelo colto da Bernardini è con un testo certamente meno conosciuto, ma non nel mondo protestante: la cosiddetta «Confessione di Accra», il documento che l’Assemblea generale dell’Alleanza riformata mondiale approvò in Ghana nell’estate del 2004. «Ho riletto il nostro documento di Accra e sono rimasto impressionato dai punti di contatto con l’enciclica papale».

Scrive papa Francesco nel 2015 (p. 49): «Oggi non possiamo fare a meno di riconoscere che un vero approccio ecologico diventa sempre un approccio sociale, che deve integrare la giustizia nelle discussioni sull’ambiente, per ascoltare tanto il grido della terra quanto il grido dei poveri». Scriveva nel 2004 l’Assemblea di Accra, riprendendo le parole di Giovanni (Giov. 10,10): «Per questo noi rifiutiamo ogni pratica o insegnamento ecclesiastico che escluda dalla propria missione i poveri e la salvaguardia del creato». Secondo il pastore Bernardini, parole ed espressioni comuni ci fanno capire che il tema dell’ambiente è «un tema naturalmente ecumenico». Non è un caso che una riflessione ecologica stia maturando in tutti le chiese cristiane, «perché siamo tutti testimoni, vittime e carnefici del problema ambientale, perché abitiamo tutti lo stesso luogo». Relativamente ai problemi «del creato», i cristiani tutti devono intraprendere «un cammino di conversione che includa il pentimento». In altre parole, precisa Bernardini, «c’è bisogno di una trinità etica che accompagni la trinità teologica: giustizia, pace e integrità del creato sono tre concetti distinti, non confusi, ma da vivere nella loro unità. È una questione di confessione di fede». L’auspicio del pastore valdese è che le religioni, a partire da quella cristiana, elaborino una «teologia ecologica» che possa contribuire ad uno scarto di mentalità, favorendo la concreta percezione di una condivisione socio-naturale che nell’enciclica di papa Francesco è richiamata dalla metafora della «casa comune» e che Bernardini definisce con la parola «covenant».

Sulla scia tracciata dal moderatore, si sono inseriti gli interventi del vescovo evangelico Markus Dröge, che ha posto l’accento sul ruolo creativo dell’uomo all’interno di una creazione intesa come processo infinito, di cui l’uomo dovrebbe riconoscersi parte attiva (dai semi al pane); e il contributo del rabbino Skorka, che ha parlato del rapporto pattizio che Dio ricerca con gli esseri umani, individuando nell’Antico Testamento le tre tappe di questo negoziato: Adamo, Babele e Abramo. Sul fronte laico, meritevole di attenzione è stato invece il contributo di Andrea Orlando, che da ex ministro dell’Ambiente ha riconosciuto la crucialità politica delle religioni, «perché il loro carattere morale e sovranazionale interroga i poteri pubblici».

Orlando ha ammesso la frustrazione e il senso d’impotenza emersi da tutti gli ultimi consessi sui cambiamenti climatici, «meeting preceduti dalle più alte aspettative e seguiti dal minimo risultato». «Il problema», ha spiegato, «è che in quei consessi i paesi industrializzati chiedono ai paesi emergenti di non fare quello che hanno fatto loro. Si può consumare di meno se hai la tecnologia, ma i paesi emergenti non ce l’hanno». Secondo il ministro, il dovere della politica è dunque quello di «creare un sistema di convenienze diverso», rendendo vantaggiosi il risparmio delle risorse e i comportamenti virtuosi: «Finché lo spreco rimarrà un valore del sistema produttivo capitalistico, finché la politica non si impegnerà su un diverso sistema contabile del benessere e delle risorse, faticheremo a vedere dei progressi reali e soprattutto ad imporli agli altri».

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L’intervista: Eugenio Bernardini da Tirana: la collaborazione dei popoli è la via

Prima volta in Albania?

«Prima volta in Albania e grande curiosità, perché l’Albania è il primo paese che ha fatto vivere all’Italia la consapevolezza di essere un paese non più d’emigrazione ma d’immigrazione. Oramai venticinque anni fa la nostra reazione fu stupefatta, ma, devo dire, sostanzialmente solidale. Qui a Tirana ho trovato un paese in costruzione, che si sta aprendo al mondo, che si sta impegnando per la maturazione della sua democrazia, che rispetta la pluralità culturale e religiosa. Una transizione pacifica, alla quale l’Italia ha dato un contributo importante. L’Albania dimostra che quando si è in grado di praticare l’accoglienza, ciò crea delle condizioni per lo sviluppo di relazioni utili a tutti, su entrambe le sponde dell’Adriatico».

Ecco, a proposito dell’altra sponda dell’Adriatico, che cos’è cambiato in questo quarto di secolo? Come si è evoluto, in Italia, il pubblico dibattito sull’immigrazione?

«Io penso che l’esempio dell’Albania dimostri che le situazioni di emergenza affrontate con serenità ed equità nel lungo periodo possano creare condizioni sistemicamente positive. È chiaro che oggi il quadro è molto più complesso. Negli anni Novanta si trattava di un piccolo paese del bacino del Mediterraneo, noi oggi come Europa abbiamo di fronte crisi e sfide molto più grandi che nascono da guerre violentissime di cui non riusciamo a intravedere la fine, la via di uscita politico-diplomatica. Ciò detto, di nuovo, sebbene le condizioni siano diverse, non ci sono reali alternative alla collaborazione tra i popoli. Una collaborazione che sia il più possibile equa, reciproca. C’è il momento in cui chi sta meglio deve aiutare l’altro, come fece l’Italia con l’Albania post-comunista, e c’è il momento in cui da questa mano tesa può nascere uno scambio nuovo. Mi rendo conto che sia molto più difficile instaurare questo tipo di relazioni virtuose con la sponda africana e mediorientale del Mediterraneo, dove pesano i fortissimi interessi dettati dalle risorse naturali e dalla posizione geopolitica di quei paesi. Il quadro è estremamente più difficile, ma l’indifferenza non è mai una soluzione, né umana né politica».

Secondo lei l’Italia è un paese solidale? Più o meno di quanto appare dalle esternazioni delle sue élite politiche?

«Personalmente sto notando che a seguito di un periodo in cui la società civile è rimasta un po’ muta, diciamo pure alla mercé di coloro che pretendevano di rappresentarla, cominciano a esserci degli elementi estremamente positivi che raccogliamo, come la disponibilità di tanti territori a offrire accoglienza ai profughi. Mi auguro che soprattutto alcune parti politiche ne prendano atto, anche perché nei mesi in cui l’Europa aveva altri pensieri e preoccupazioni, va detto che l’Italia, forse perché assieme a Spagna e Grecia in prima linea sulla questione profughi, è comunque riuscita a introdurre nell’agenda europea questa tematica, che oggi si presenta come emergenza, ma che ha radici profonde. Io penso che non solo l’Italia, ma anche l’Europa siano in realtà migliori della loro immagine veicolata dai media. Intravedo segnali positivi, a cominciare da quella carovana di auto private in marcia verso Budapest. Qualcosa si sta muovendo. Per quanto riguarda le chiese cristiane europee, bisogna dirlo, forse non sempre con la dovuta forza, ma hanno comunque mantenuto il punto di fronte alla politica e alle opinioni pubbliche: i profughi vanno accolti. Speriamo che la politica sappia trovare delle risposte non episodiche e non militari. In questo frangente abbiamo bisogno di forza morale tanto quanto di progettualità politica».

Veniamo alla discussione di oggi, su un altro tema fondamentale che richiederà lungimiranti capacità di visione e progettazione: quello della relazione tra umanità e ambiente. Più di un relatore ha ricordato come nelle Sacre Scritture la centralità dell’uomo sembri relegare la natura ad un ruolo di «ambientazione». Pur senza volerlo, nel corso della storia sia l’Ebraismo che il Cristianesimo hanno forse corso il rischio di giustificare la sopraffazione dell’attore protagonista sullo scenario del Creato. Che cosa hanno da dire i protestanti sul rapporto uomo-natura?

«Le Scritture riportano una situazione in cui l’uomo era alle mercé delle forze della natura. Al tempo, l’intervento e il lavoro dell’uomo sulla natura erano avvertiti come positivi senza se e senza ma. Non ci si immaginava neppure che l’umanità avrebbe elaborato tecnologie in grado di mettere in crisi questa forza preponderante. In tempo recenti, il pensiero teologico cristiano, alla pari di quello ebraico, ha chiarito in maniera definitiva come l’idea del dominio dell’uomo sulla natura non sia propria dei testi sacri, ma della lettura che di questi venne fatta in altre epoche storiche. Abbiamo superato da tempo i termini di questa discussione, oggi siamo tutti consapevoli del fatto che dobbiamo lavorare per estendere la consapevolezza che tutto ciò che consente lo sviluppo della vita umana dipende dalle risorse della natura. L’acqua, le foreste, il clima, la fertilità della terra, senza questi elementi l’esistenza stessa dell’uomo è messa in pericolo. Il problema è approfondire questa consapevolezza sulle due scale della vita umana: le grandi scelte politiche delle nazioni e i piccoli gesti del quotidiano. Per entrambi i livelli servono buone leggi – oggi il ministro Orlando ci ha ricordato che finalmente l’Italia possiede una legge sul reato ambientale – ma soprattutto la garanzia della loro applicazione. Per fare questo serve un potere pubblico moderno: le strutture statuali deboli hanno esiti ambientali inferiori. E qui si ritorna all’Albania, e all’Italia».