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Abolire il carcere?

L’espressione più comune in riferimento al pianeta carcere in Italia è: «Bisognerebbe metterlo in gabbia e buttar via la chiave». Ci si riferisce per lo più a crimini efferati e anche a corrotti che avendo i mezzi economici, riescono spesso a farla franca. Così quando ho visto il libro Abolire il carcere sono rimasto colpito. Il sottotitolo specifica: «Una ragionevole proposta per la sicurezza dei cittadini».

La frase che citavo all’inizio è spesso pronunciata in nome del diritto dei cittadini onesti di difendersi. Ma in verità a partire da dati e studi recenti il libro di Manconi, Anastasia, Calderone e Resta dimostra che la recidiva, cioè il tornare a delinquere una volta in libertà, è molto più diffusa fra le persone che restano in carcere per più tempo. E l’esperienza di chi il carcere lo frequenta come operatore sociale o pastorale conferma che peggiore è il trattamento carcerario, maggiore è il risentimento accumulato. E così il carcere diviene sempre più spesso luogo di apprendimento di competenze delinquenziali piuttosto che di rieducazione, come viceversa recita la nostra Costituzione.

Della cifra complessiva dei quasi 3 miliardi di euro all’anno destinata al sistema carcerario, solo una parte marginale viene usata per attività rieducative che aiutino una volta fuori a non più delinquere. Eppure, quale obiettivo migliore da perseguire per la sicurezza degli onesti se non il recupero sociale dei detenuti? Non dimentichiamo che il nostro paese è stato condannato dalla Corte Europea per il sovraffollamento e il trattamento disumano dei carcerati. E questo dato, insieme agli episodi di violenza all’interno del carcere, spesso lasciati impuniti, fa sì che agli occhi dei detenuti, il sistema carcerario non conservi quasi alcuna legittimità morale. Come può rieducare chi infrange le leggi, al pari, di chi è stato condannato?

Il carcere non è sempre esistito, esso ebbe origine dalla volontà di superare il regime delle punizioni corporali. Ci si chiede perciò se un paese davvero civile non dovrebbe, a distanza di due secoli, porsi la questione se non sia arrivato il momento di «immaginare qualcosa di diverso da gabbie, sbarre, e celle dietro le quali rinchiudere i propri simili come animali feroci», come scrive Gustavo Zagrebelsky nella postfazione del libro.

Non di buonismo si tratta ma di buon senso. L’intento del libro è preparare una rivoluzione culturale simile a quella di Franco Basaglia in riferimento ai manicomi. Rispetto alle alternative al carcere il nostro testo fa proposte, alcune delle quali già in uso e da incentivare che vanno dalla semidetenzione agli arresti domiciliari, alla libertà in prova, all’inserimento lavorativo, fino a forme innovative di giustizia riparativa. Se in Italia l82,6% dei condannati sconta la pena in carcere, in Francia e in Gran Bretagna, ad esempio, la percentuale scende al 24%. Inoltre uno degli indici di recidiva più basso d’Europa è ottenuto in Svezia, soprattutto attraverso il lavoro all’esterno e con pene non carcerarie.

Ma per andare in questa direzione abbiamo bisogno di superare quei sentimenti diffusi di rabbia e vendetta sociale che spesso vengono instillati, non per offrire maggiori garanzie ai cittadini quanto per lucrare consensi alla propria parte politica. Come credenti ricordiamo che con la stessa misura con cui giudichiamo, saremo noi stessi giudicati. Il Vangelo ci offre dunque la chiave non per chiudere, ma per aprire le gabbie dei nostri giudizi e pregiudizi e scorgere in fondo al cuore dell’altro e dell’altra la nostra comune umanità.

Foto: Carcere, di Hans, Licenza: CC0 Public Domain, by Pixabay